C’è una Sicilia che cresce, assicura il presidente della Regione. Poi ce n’è un’altra che boccheggia. La prima vive nei comunicati, nelle interviste, nei report commentati con enfasi; la seconda abita nei campi senz’acqua, negli ospedali senza medici, nei Comuni che chiedono soccorso e nelle imprese agricole soffocate dalla burocrazia. È tra queste due Sicilie che si consuma il corto circuito della legislatura, tra la narrazione e la realtà.

«I nuovi dati Istat confermano che la Sicilia cresce più del resto d’Italia», ha dichiarato Renato Schifani, rivendicando un aumento del Pil dell’1,8% nel 2024, il migliore a livello nazionale. Una crescita che, secondo il governatore, dimostrerebbe che «la strada intrapresa è quella giusta» e che la Regione non sarebbe più «un problema da risolvere, ma una risorsa per l’Italia». Già a ottobre, parlando di «momento magico», Schifani aveva collegato il presunto rilancio dell’Isola all’azione congiunta del governo nazionale e regionale, fino a rivendicare con orgoglio il miliardo e trecento milioni stanziati dalla Sicilia per il Ponte sullo Stretto.

Il punto, però, è sempre lo stesso: quale Sicilia cresce davvero?

Di certo non quella agricola, travolta da una crisi idrica che ha assunto i contorni di un disastro sistemico. L’Isola sta affrontando una delle emergenze idriche più gravi degli ultimi decenni, figlia di anni di siccità, precipitazioni irregolari e infrastrutture inadeguate. A marzo ‘25 i bacini artificiali contenevano circa 345 milioni di metri cubi d’acqua, il 15% in più rispetto all’anno precedente. Un dato che, preso da solo, potrebbe sembrare incoraggiante. Ma basta scendere nel dettaglio per capire quanto sia illusorio. Molti invasi strategici restano sotto la soglia di guardia, alcuni praticamente vuoti. In diverse aree interne, dove i bacini minori sono l’unica fonte per agricoltura e usi civili, i sindaci parlano apertamente di situazione “insostenibile”. A questo si aggiunge un paradosso tutto siciliano: parte dell’acqua accumulata viene scaricata perché gli invasi non sono collaudati per il riempimento massimo. In piena emergenza, si spreca risorsa.

Il settore agricolo è quello che paga il prezzo più alto. In alcune zone del Trapanese le perdite di raccolto arrivano al 70%. Agrumi, olive, foraggi: intere filiere sono in sofferenza. Coldiretti lo ha detto chiaramente il 10 dicembre scorso, portando in piazza agricoltori, sindaci e amministratori locali davanti all’Assemblea regionale siciliana. La piattaforma è nota: un piano regionale invasi vero, almeno 20 milioni in più per nuove opere e sistemi di raccolta delle acque; un prezzo equo del latte per il settore zootecnico; ristori per la peronospora, indennizzi per i danni da fauna selvatica, strumenti finanziari per le piccole e medie imprese agricole. Tutto questo mentre oltre il 50% dell’acqua immessa nelle reti continua a disperdersi per colpa di condotte vecchie e mai ammodernate.

La Regione rivendica interventi, cabine di regia, misure emergenziali, uso dei “volumi morti” degli invasi e progetti infrastrutturali. Ma la verità è che la crisi idrica non è più un’emergenza stagionale: è il risultato di decenni di rinvii, di piani annunciati e mai attuati, di una gestione che rincorre il problema senza governarlo.

Non cresce, allo stesso modo, la Sicilia della sanità. Qui il Pil non consola nessuno. Liste d’attesa infinite, pronto soccorso sotto pressione, carenza cronica di medici e infermieri, punti di emergenza territoriale lasciati senza personale. In vista di una riforma “epocale” che promette rigore nelle selezioni dei manager (ma che rimane comunque agganciata ai desiderata della politica), le nomine procedono a rilento: emblematico il caso dell’Asp di Palermo, dove il decreto di nomina di Alberto Firenze rimane incagliato da mesi. Nel frattempo, la nuova rete ospedaliera attende ancora il vaglio ministeriale, mentre i territori continuano a perdere servizi.

Cresce, forse, il turismo. Ma con molte cautele. Palermo registra numeri incoraggianti anche in inverno, con un’occupazione alberghiera in aumento già prima di Natale e il tutto esaurito per Capodanno. Il mercato internazionale cresce, le tariffe salgono, la permanenza media si allunga. È un segnale positivo, certo. Ma resta una percentuale minima rispetto al resto dell’economia regionale. E soprattutto non basta a compensare il declino strutturale di altri settori produttivi, né a giustificare la retorica dello “sviluppo diffuso”.

Perché se si guarda oltre le vetrine, emerge l’altra Sicilia: quella delle clientele, dei cerchi magici, dei pagnottisti. Una Sicilia che cresce non in termini di valore aggiunto, ma di rendite politiche. Le inchieste per corruzione che hanno coinvolto figure apicali della politica regionale – da Gaetano Galvagno a Elvira Amata, fino al ritorno giudiziario di Totò Cuffaro – raccontano un sistema che fatica a liberarsi dai vecchi attrezzi: raccomandazioni, favori, scambi di potere.

È questa la Sicilia che prospera davvero: quella che vive di intermediazioni, di contributi a pioggia, di “spendi e spandi” senza visione. La Sicilia dove l’industria incassa incentivi ma non crea occupazione stabile, dove il commercio muore, dove l’agricoltura sopravvive a colpi di ristori. Alla fine, il problema non è negare i dati Istat. Il problema è scambiarli per una strategia. Perché la crescita certificata non diventa sviluppo se non migliora i servizi, non rafforza i territori, non riduce le disuguaglianze. E allora sì, forse cresce davvero qualcosa. Ma non è la Sicilia dei siciliani. È la Sicilia della casta, delle clientele e dei professionisti del consenso.