E se si chiudesse ora il “mirabile” anno di Agrigento capitale nazionale della cultura? Se si sospendesse il calendario gregoriano e i mesi fino al prossimo dicembre venissero contati a parte?
È certo difficile un’operazione di questa natura. Tuttavia, bisogna trovare il modo per interrompere il flusso di eventi che continua a comporre una vicenda tragicomica.
Cominciata con l’acqua piovana dentro il teatro Pirandello alla vigilia della visita del presidente della Repubblica, potrebbe terminare ora con le dimissioni del direttore artistico di quel teatro, raggiunto da indagini della magistratura. Era lì a guidarlo forse per capacità proprie, sicuramente perché quella istituzione era stata assegnata al suo partito, a Fratelli d’Italia. In Sicilia e nel Paese, più di prima, il sostegno alla cultura non appassiona molto. Interessano semmai le sue istituzioni per metterci le mani, per farne oggetto della spartizione del potere.
Ora, evitando il ricorso banale, seppure istintivo, al malocchio e alla conseguente “patente” del commediografo agrigentino, qualche domanda bisogna farsela. Da allora, da quel gennaio, sarebbe dovuto partire il programma approvato dal ministero della Cultura. Sarebbe dovuto cominciare ad arrivare il flusso massiccio di visitatori per assistere e partecipare ad iniziative così importanti e numerose da far capire ciò che si è in grado di fare in quella città e smentire gli speciosi luoghi comuni sul profondo Sud e sulla sua classe dirigente.
Che poi, invece, e su questo terreno non la batte nessuno, si è messa di buzzo buono per confermarli e farli persino lievitare.
Di quel progetto poco alla volta si sono perdute le tracce, e l’annus mirabilis – frase fatta – è divenuto horribilis. Una catena di inefficienze, di incapacità, di figuracce, di accadimenti amari e grotteschi hanno richiamato ad Agrigento, anziché grandi artisti e folle di visitatori, il dileggio, l’irrisione e hanno consolidato i pregiudizi.
Da gennaio alle guttère nel teatro è seguito l’asfalto che ha reso agevole il percorso del presidente della Repubblica ma ha murato i tombini, che per ritrovarli si è dovuto faticare non poco. Poi una frana ha chiuso una delle strade principali e più recentemente il crollo di un muro del vecchio ospedale nella centralissima via Atenea ha bloccato l’annoso restauro di un palazzo destinato a sede dell’Università. Infine l’acqua, che ad Agrigento non c’è mai stata, che sarebbe dovuta arrivare con la realizzazione di un nuovo acquedotto. Ma ancor prima che iniziassero i lavori, opportunamente ritardati per pattiare, è stata trasformata in “liquido” per le tasche di alcuni politici e dirigenti amministrativi, come ritiene la magistratura,.
Piuttosto che interrompere il calendario gregoriano, operazione difficile se non impossibile, sarebbe stato meglio che quel titolo un po’ retorico e molto impegnativo di “capitale della cultura” fosse stata attribuito ad altro luogo. Ad Agrigento ci sarebbero stati ugualmente i guasti e i problemi, ma avremmo continuato a conoscerli solo noi della provincia o siciliani, anziché metterne a parte tutto il Paese e non solo.
La scelta, che risale a più di tre anni fa, ci ha fatto conoscere ancor di più. Perché questo disastro non è opera di forze occulte o del malocchio, ma è il “capolavoro” di un gruppo che da molti anni governa o piuttosto domina la città dei templi, in una continuità che lega la seconda alla prima Repubblica dentro un processo di graduale, inarrestabile svilimento della qualità dell’azione politica. Questo gruppo non ha capito il valore e la natura della decisione del governo e, per inveterato istinto, ha tentato di trasformarla in uno strumento clientelare. Ha dato vita ad una Fondazione, uno a te uno a me, con persone del tutto lontane dalla cultura e dalle sue “fumoserie”. Non l’ha dotata degli strumenti indispensabili per il suo funzionamento e alla fine se l’è vista commissariare dalla presidenza della Regione ed è stato esautorato del tutto, probabilmente con un sospiro di sollievo. Quel gruppo si era già reso conto della propria incapacità e si era visto bersaglio di costanti, pesanti accuse che non riusciva più a rintuzzare. Aveva capito, peraltro, che non esistevano le possibilità di accontentare tutti i partiti e per soddisfare le loro aspettative. Schifani, per evitare di diventare corresponsabile del fallimento, è intervenuto quando già la frittata era fatta. Prima ha scelto un’ex prefetta che non ha palesato particolare attitudine al ruolo ed anzi ha confermato e reso più evidente l’esclusione della città e delle sue forze economiche e culturali da quel progetto e, dopo le dimissioni di un direttore che le uova aveva contribuito a romperle, un funzionario capace ma non certo attrezzato ai miracoli.
Ora, può darsi che qualcosa del progetto originario si riuscirà a realizzare. Naturalmente sarebbe comunque improprio continuare a parlare di anno “capitale della cultura”. Quello consideriamolo chiuso e le iniziative che verranno poste in essere le attribuiremo, che so, al 2026 meno qualche mese.
Ad Agrigento, del resto, le folle di turisti arrivano, malgrado i guasti del suo gruppo dominante e di quelli che lo hanno preceduto.
Agrigento rimane la città dei templi, con un patrimonio inestimabile ereditato migliaia di anni addietro e sfuggito miracolosamente all’incuria e ai numerosi tentativi di sfigurarlo.
Contentiamoci di quel lascito, evitando di imbarcarci in operazioni al di sopra delle nostre capacità. Tanto, per gestire il potere il consenso si trova. Che quasi mai in Sicilia, e ad Agrigento in particolare, è stato rapportato al merito, anzi, spesso ad esso è risultato inversamente proporzionale.