Nel repertorio dei disastri toccherebbe all’antimafia televisiva raccogliere le ultime macerie. La memoria corta, però, è uno degli effetti collaterali della vita nelle fabbriche dello share. Chi volete che si ricordi delle sventure di un piccolo paese, Mezzojuso, che “Non è L’Arena” di Massimo Giletti rese capitale della mafia e dell’omertà (che pur ci sono e nessuno intende sostenere il contrario). La narrazione, stereotipata e con venature trash, metteva al centro la storia delle sorelle Napoli, tre donne minacciate e intimidite per costringerle a cedere i terreni della loro azienda agricola nell’entroterra della provincia palermitana. Ebbene, gli imputati sono stati assolti dall’accusa di estorsione. Assolti dopo essere stati arrestati nel 2018 e già condannati, senza appello, dal tribunale parallelo della Tv.

Recinzioni tagliate, trattori danneggiati, lanci di pietre, cani avvelenati, animali mandati al pascolo per distruggere i terreni delle “dannate” (così Giletti ha definito le tre sorelle in un libro): è lunga la lista degli episodi denunciati. Chi siano i colpevoli non si sa. Di certo gli imputati nulla c’entrano. Un ribaltone quello della Procura di Termini Imerese che prima li ha fatti arrestare, poi ha chiesto l’assoluzione in primo grado e infine non ha appellato il verdetto. Ergo, assoluzione definitiva in un silenzio (o quasi) che più assordante non si può. Un dettaglio di second’ordine per il giustizialismo televisivo che brucia storie e reputazioni per un pugno di telespettatori in più.

Massimo Giletti scelse la storia e ne fece un caso di respiro nazionale. Le sorelle Napoli divennero il simbolo della resistenza al sopruso mafioso. Il sindaco di Mezzojuso, va detto, ci mise del suo facendosi beccare impreparato alla domanda delle domande. È vero che era andato al funerale di don Cola, boss del paese e amico fraterno di Bernardo Provenzano? Salvatore Giardina, così si chiama l’ex primo cittadino, prima farfugliò una giustificazione legata alla carità cristiana, poi rispose che si era confuso. Non aveva memoria del funerale celebrato una dozzina di anni prima, nel 2006, quando era assessore comunale. Il suo “non ricordo” portava con sé funesti presagi. Tra gli imputati del processo scagionati c’è, infatti, Simone La Barbera, figlio di don Cola. Che assist mediatico-giudiziario. L’uomo che dava “il tormento” alle tre donne, “la causa di tutti i loro mali” era figlio di un mafioso ed egli stesso imputato per un’altra tentata estorsione con metodo mafioso che nulla aveva a che fare con le sorelle Napoli.

La produzione di Giletti accese i motori. Si fiondò in piazza a Mezzojuso. Da una parte erano sedute le sorelle Napoli, dall’altra il sindaco. In mezzo, Giletti. Tutti intorno, oltre le transenne, i cittadini. Insomma, un’Arena. Giardina aveva gli occhi spiritati durante il faccia a faccia con Giletti. Si ritrovarono l’uno ad una manciata di centimetri dall’altro. Fiato contro fiato. E urlavano. “Mistificatore delle realtà”; “Che fa mi mette le mani addosso”. L’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, fiutò aria di popolarità a buon mercato e inviò gli ispettori in Sicilia. Il Consiglio dei ministri commissariò il Comune. Tra le contestazioni mosse a Giardina c’era proprio la partecipazione ai funerali di don Cola. A nulla servì dimostrare che non poteva esserci andato perché si trovava al lavoro. Oramai il caso era esploso.

Le puntate si susseguivano, una dopo l’altra. Non andava ancora di moda Salvatore Baiardo. Il gelataio di Omegna, condannato in passato per avere aiutato i boss Graviano di Brancaccio, definito in maniera surreale “portavoce” dei fratelli stragisti di Palermo, da lì a poco sarebbe diventato il nuovo profeta. Il livello doveva alzarsi per fare breccia e accomodarsi nei salotti televisivi dopo che certe panzane del passato hanno segnato un’epoca. Una lunga stagione di sospetti spacciati per prove, con gli adepti che rispondevano al richiamo dei santoni dell’Antimafia. Baiardo sapeva come sedurre. Ha tirato fuori la hollywoodiana rivelazione della vacanza dei Graviano in Sardegna vicino alla villa di Silvio Berlusconi. Ha parlato della moltiplicazione dell’agenda rossa trafugata dalla borsa di Paolo Borsellino nei minuti successivi alla strage di via d’Amelio e fotocopiata affinché più persone la usassero come arma di ricatto. In un crescendo di rivelazioni Baiardo ha sostenuto che l’arresto di Messina Denaro sia stato una messinscena, un rigurgito dell’eterna trattativa Stato-mafia, per consentire a qualcuno “che ha l’ergastolo ostativo di uscire senza che ci sia clamore”. Le ospitate, ben retribuite, di Baiardo hanno fornito l’ennesima prova del perverso intreccio mediatico-giudiziario. Perché è travasando certi personaggi dalla televisione nei palazzi di giustizia che è andata a sbattere un’altra antimafia, quella chiodata delle procure. Dalle porte girevoli per primo transitò Massimo Ciancimino, facendo da ventriloquo al padre, il defunto ex sindaco mafioso di Palermo. Raccontava ciò che tornava utile alla sua causa, facendo attenzione che fosse al contempo comodo e confortevole anche per i pubblici ministeri che si guardavano allo specchio mentre lo interrogavano. Ciancimino jr divenne così il supertestimone del processo sulla Trattativa naufragato assieme alla credibilità di un personaggio al limite del grottesco. È stato sostituito nottetempo, scaricato dopo averlo spremuto a dovere.

Avanti un altro: ecco farsi sotto l’ex collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, uscito dal programma di protezione e pronto a rivelare – udite udite – che esiste “un terzo livello che comanda e ha comandato sempre”, che regge i fili ed è pronto a fare un favore ai mafiosi eliminando l’ergastolo ostativo. Una minestra riscaldata in stile Baiardo alle cui chiacchiere hanno dato credito magistrati in pensione assoldati dalla politica come Roberto Scarpinato e Federico Cafiero De Raho, e in carica come Antonino Di Matteo e i pubblici ministeri di Firenze che indagano da decenni su Silvio Berlusconi. Questi ultimi si sono messi a caccia della fantomatica foto di Graviano e Berlusconi che Baiardo mostrò a Giletti. Bisogna credere per fede che lo scatto li ritraesse davvero insieme perché nella penombra del dietro le quinte mica si vedevano le facce. Stessa cosa per il colpo basso che Baiardo tentò di rifilare a Giletti sostenendo che il conduttore gli avrebbe allungato di nascosto un foglietto con cui lo invitava a fare da cassa di risonanza alle minacce subite dal giornalista. Ora Baiardo rischia il carcere dove finirà se il suo ricorso in Cassazione non dovesse essere accolto. Si è rimangiato la storia della fotografia ed è accusato di avere calunniato colui che gli ha dato voce, Massimo Giletti. Incidenti di percorso quando si sta in piedi come funamboli sulla corda del nonsense.

Se ce n’è abbastanza per avventurose ricostruzioni giornalistiche spacciate per scoop basta e avanza per alimentare indagini e processi. Qualcuno finirà nel tritacarne, vittima dello sputtanamento in nome dell’antimafia, esposto al pubblico ludibrio nella frenetica ricerca di nuovi mostri. Spunteranno altri infedeli servitori dello Stato e agenti, segreti e deviati, seduti attorno a chissà quale tavolo ovale o nella stanza dei bottoni. I racconti di Mutolo, ad esempio, ci hanno regalato un déjà-vu che rimanda ad un’altra antimafia che raccoglie i cocci, quella dei familiari delle vittime. L’ex collaboratore è stato accolto a braccia aperte da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il magistrato assassinato in via D’Amelio. Era già accaduto con Ciancimino jr prima che venisse sommerso dalle patacche rifilate per anni ai pubblici ministeri di Palermo. La famiglia Borsellino si è spaccata. Da una parte i figli del magistrato, dall’altra il fratello Salvatore che pur di iscriversi al partito delle ombre e della Trattativa ha troncato quei residui rapporti che lo legavano ai nipoti. Una frattura insanabile come è emerso in una recente convocazione in commissione parlamentare antimafia a palazzo San Macuto. I Borsellino e l’avvocato Fabio Trizzino (marito di una delle figlie, Lucia) hanno criticato la scelta della magistratura di essere rimasti aggrappati alla tesi della Trattativa con il coltello fra i denti, abbandonando colpevolmente altre possibili piste. Su tutte il dossier “mafia e appalti” dove risiederebbe il movente dell’eccidio. Se la sono presa anche con Roberto Scarpinato, che era uno dei titolari del fascicolo archiviato (anche se Scarpinato ha sempre detto che furono chiuse alcune posizioni e stralciato un grosso filone) e che da senatore del Movimento 5 Stelle è entrato a San Macuto. A difesa dell’ex magistrato si sono fatti avanti Di Matteo, oggi al Csm, e il collega di partito Federico Cafiero de Raho, ex procuratore nazionale antimafia. Le impalcature processuali crollano ma continuano a ripetere che “Cosa Nostra non ha agito da sola”, che ci sono i mandanti esterni, che qualcuno li copre e qualcun altro traccheggia con la verità. Lo dicono da decenni, nelle aule dei tribunali e in parlamento quando svestono la toga per ungere la politica e di riflesso il popolo italiano con il crisma dell’infallibilità. Il loro sta diventando il refrain stucchevole dell’antimafia delle chiacchiere. Suggestive, affascinanti se volete, ma indimostrabili. Si sono cambiati di abito ma propongono le stesse teorie che non hanno retto al vaglio dei Tribunali e che minano la credibilità della magistratura. (continua sul Foglio)