Di fronte alla crisi irreversibile di Fratelli d’Italia – o chiamatela come preferite: decadenza morale, per esempio – Giorgia Meloni non può più voltarsi dall’altra parte. Di fronte alle guerre tra bande, alle collane in cambio (?) di finanziamenti, ai lauti contributi per le associazioni amiche, troverà la premier un modo per dire basta? Report, lunedì sera, ha consegnato agli italiani una verità ineluttabile: Fratelli di Sicilia è un partito arrogante, senza morale. Due dei suoi massimi rappresentanti sono indagati per corruzione (e peculato), eppure continuano a rivestire incarichi di rilievo in seno all’amministrazione. Gli ex, come Manlio Messina, vomitano retroscena sulla vita democratica in seno al partito, i colonnelli – da Donzelli a Lollobrigida – non riescono più a controllare una situazione esplosiva. Il ritratto che ne consegue è imbarazzante.
Meloni ci ha già provato una volta con l’invio di un commissario che non è riuscito a raddrizzare la barra, o a risolvere uno solo dei problemi sul piatto. Luca Sbardella pensava di potersela cavare in pochi mesi e andare via, ma finora il suo impatto è stato quasi nullo. O forse no: l’unico risultato raggiunto è aver incastrato Schifani con il ‘voto segreto’ all’Assemblea regionale, nel corso della manovra-quater, così da ottenere la sua attenzione e, in cambio, la testa del dirigente Salvatore Iacolino (che resta con un piede e mezzo fuori dal Dipartimento Pianificazione strategica della Sanità). Per il resto il suo apporto è stato evanescente.
L’addio di Carlo Auteri in direzione Democrazia Cristiana, dopo lo sperpero dei fondi pubblici destinati a enti e associazioni culturali, ha rappresentato la vittoria di Pirro. Perché ancora oggi i patrioti restano pieni di contraddizioni: a partire dalla posizione dell’assessore Elvira Amata, che scappa dalle telecamere per evitare di rispondere alle domande scomode. Non solo sugli effetti di SeeSicily (ricordate la fuga dai giornalisti curiosi di Mario Giordano, su Rete4?), ma anche sui doni – francamente fuori luogo – che la direttrice di Taobuk, Antonella Ferrara, avrebbe recapitato all’assessora nel giorno del suo compleanno, due anni fa. Mentre la Regione cominciava, progressivamente, ad aumentare il proprio contributo nei confronti di una rassegna in espansione.
La stessa assessora Amata è finita nell’inchiesta per corruzione della Procura di Palermo, per aver chiesto un posticino di lavoro per il nipote in una società di brokeraggio: stavolta il destinatario della supplica era Marcella Cannariato, moglie di Tommaso Dragotto, che nel frattempo – sempre per caso? – aveva ricevuto in cambio numerosi contributi per le associazioni di cui faceva parte. Questo incastro è costato alla Amata la richiesta di rinvio a giudizio (ma non il posto di assessore, che Schifani continua a garantirle).
Una sorte analoga è toccata a Galvagno, che di fronte alle telecamere continua a manifestare la propria sicumera. Ma anche per il presidente dell’Ars, dietro la richiesta di un processo, pesa il dubbio di una condotta non certo ineccepibile. Anzi, politicamente inopportuna. L’accusa di corruzione lo tange, nel senso che riguarda prevalentemente uomini e donne del suo “cerchio magico” che Galvagno sostiene di non aver mai segnalato ad alcuno (le famose “utilità” in cambio di finanziamenti pubblici). Ma poi c’è il caso dell’auto blu, dei viaggi per prelevare parenti, amici o sushi. Di fronte a cotante manifestazioni di ingordigia, tutte orientate alla presunzione d’impunità, Meloni troverà qualcosa da dire? Di fronte alle “collette” ordinate dall’ex sindaco di Avola Luca Cannata – altra “vittima” di una presunta congiura – verrà mai pronunciata una parola di chiarezza?
Non si può imputare tutto al controllo dei La Russa o dei Lollobrigida (quest’ultimo si guarda bene dal commentare le vicende territoriali, perché “per fortuna” fa il ministro e ha altro di cui occuparsi). Ma anche Lollo, dopo una lunga militanza comune e una stima dichiarata a più riprese, è finito nel mirino di Manlio Messina, il battitore libero che – una volta fuoriuscito da FdI – riserva colpi a effetto. Non solo quello della compagnia aerea con cui promette sconti e voli calmierati ai siciliani; o le accuse a Schifani, con la minaccia di sfidarlo alle prossime Regionali; ma anche e soprattutto con le rivelazioni legate al suo addio. Si sarebbe trattato di un complotto ordito ai suoi danni da parte di alcuni “invidiosi” che ne temevano il boom (“Non mi hanno più fatto andare in televisione”). E così, utilizzando lo scandalo di Auteri, hanno provato – riuscendoci – a farlo fuori.
A Giovanni Donzelli, responsabile dell’organizzazione, va dato atto, quanto meno, di aver provato a resistere di fronte al forcing di Report. Ma gli altri? Non pervenuti. Come se la situazione non li riguardasse. Come se FdI non fosse l’architrave di un governo nel quale quattro assessori indossano la stessa divisa della premier; come se l’inchiesta della Procura di Palermo fosse un inciampo accidentale, e non invece l’espressione di un sistema organico che, ad altre latitudini, viene definito brutalmente “cuffarismo”; come se in Ars non stesse per cominciare la discussione sulla Finanziaria, dal cui esito dipenderà la tenuta di un governo ormai sfilacciato e ingovernabile.
Meloni fin qui ha deciso di strigliare in privato, risentendosi per l’immagine di un partito ormai allo sbando; preferirebbe a tal punto non doverci mettere la faccia, da demandare al resto della coalizione la scelta sul successore di Schifani. Ma non è questo che fanno i leader. Un repulisti, al contrario, dimostrerebbe che esiste un leader; e che è anche attento affinché la Sicilia non diventi il solito e facile ostaggio di un gruppo di avvoltoi. Giorgia, ci sei o no?

