“I fought the law and the law won”, cantavano i britannici Clash 50 anni fa, quando ribellarsi era un modello: punk. Al summit della Nato all’Aia la legge che vince è quella di Donald Trump, “daddy” come lo chiama un amorevole Mark Rutte, senza freni nell’adulazione del capo. E il ribelle è uno solo: Pedro Sanchez che si sottrae al diktat di spendere il 5 per cento del pil per la difesa, più un ‘don Chisciotte’ che un eroe vincente, visto che il paparino americano se ne torna negli Usa lasciando una scia di minacce esplicite contro la Spagna. “La pagherà”, promette il tycoon rinviando alla guerra dei dazi, ancora apertissima con l’Unione Europea malgrado si avvicini pericolosamente la data del 9 luglio, quando terminerà il periodo concesso al negoziato. Alla sua destra, il segretario di Stato alla Difesa Pete Hegseth, alla sinistra il segretario agli Esteri Marco Rubio, scudieri che il presidente chiama a intervenire quando crede per completare la scenografia di una conferenza stampa che mette il sigillo su quello che Rubio definisce “il summit di Trump”. È così. È proprio il summit di Trump, con Rutte e il tedesco Friedrich Merz nel ruolo di primi cortigiani di un alleato Atlantico che di fatto forgia un’altra Nato, più pesante nell’impegno militare europeo, più leggera verso l’Ucraina che diventa un inciso della scarna dichiarazione finale: solo 5 paragrafi a fronte degli oltre 40 della dichiarazione del summit di Washington un anno fa, quando alla Casa Bianca c’era Joe Biden, si puntava alla vittoria contro Mosca e all’integrazione di Kiev nel Patto Atlantico. Quando “tutto era morto”, sentenzia oggi il successore Trump. Continua su Huffington Post
