Per certi versi, quello sferrato dalla magistratura e dalle opposizioni, sarà un attacco vano. Mancano pochi mesi alla fine della seconda legislatura (consecutiva) e al quinto mandato da sindaco, e difficilmente Leoluca Orlando si farà scalfire da un’inchiesta fondata – secondo lui – su “una materia particolarmente tecnica”. Il Consiglio comunale, in questi anni, aveva i numeri per sfiduciarlo e non l’ha fatto: adesso, di fronte ai pochi che chiedono di ritirare fuori la mozione, c’è qualcuno che agita la scimitarra delle dimissioni. Ma il professore l’ha già detto: non ci pensate nemmeno. Sarebbe uno scalpo inutile per gli avversari, e una macchia insopportabile nel curriculum del primo cittadino, che ancora si aspetta grandi cose dalla politica. Per la fine del regno bisognerà attendere la primavera.

La grandezza consolidata di un sindaco che ha scritto la storia di Palermo negli ultimi 36 anni (è stato eletto la prima volta nel 1985), si sgretola di fronte a un’inchiesta della Procura che lo accusa di aver truccato i bilanci. Nel momento più difficile, tra l’altro, per la casse di palazzo delle Aquile: qualche settimana fa il Consiglio comunale ha dato il via libera al piano di riequilibrio finanziario per evitare l’ultima spiaggia del dissesto. I Comuni se la passano male. Anche quello di Catania, qualche tempo fa, è finito in default con Enzo Bianco, che ancora oggi paga sulla propria pelle le cicatrici di udienze e processi. Ma per Orlando è diverso: lui che ha resistito al disastro dei rifiuti, alla vergogna dei cimiteri, all’impazzimento del traffico, alla sciagura dei cantieri, è finito al tappeto su una materia ostica, difficile da governare. Di cui spesso e volentieri – chiedere a Musumeci per conferma – le cariche istituzionali più alte non si occupano. Delegano e basta.

Le accuse nei confronti di Orlando, a volerla dire tutta, sono meno gravi delle sue pecche. Amministrative innanzi tutto. L’epopea del sindaco finisce con Palermo Capitale della Cultura e con Manifesta. Si dissolve nella “visione”, un parolone che, un giorno sì e l’altro pure, affida alle prime pagine dei giornali per giustificare un cambiamento epocale di cui pochi, pochissimi palermitani si sono accorti. Specie negli ultimi anni. La quinta città d’Italia è un coacervo di questioni irrisolte, di ferite lancinanti, di soldi buttati via. Con la mancata approvazione del piano triennale delle opere pubbliche – che a Sala della Lapidi, senza una maggioranza, fatica a quagliare – finirebbero nel cestino i 198 milioni per la realizzazione di tre nuove linee del tram. Una delle tante impuntature su cui il sindaco ha sacrificato la propria faccia. Un’opera che verrebbe finanziata con risorse extracomunali, ma che dovrebbe entrare nella fase progettuale entro Natale del 2022: altrimenti adieu. Ma ci sono altri quattrini che rischiano di andare in fumo: i 30 milioni per il rifacimento della pubblica illuminazione (garantiti da Agenda Urbana); gli 11 per la manutenzione delle strade. E così via.

Ma l’eredità del sindaco è pesantissima, soprattutto, per quanto accaduto al cimitero dei Rotoli negli ultimi due anni. Uno spot regresso per tutta la nazione. Mille bare a deposito, i cinghiali a rovistare fra le tombe, il forno crematorio non funzionante. Gli odori ammorbanti, la dignità cancellata per sempre, e lui intento a disegnare cronoprogrammi che non verranno mai rispettati. Persino Matteo Salvini, l’uomo venuto dal Nord, s’è arrogato il diritto di sfottere il sindaco sui cimiteri. E sui rifiuti. E sui migranti (l’unica passione coltivata fino alla fine). Orlando ha tolto le mani dal volante e inserito il pilota automatico. Ha lasciato amministrare la città agli altri. Ha concesso il proscenio ad assessori senza arte né parte (ne sono cambiati una miriade, e alcuni suoi fedelissimi sono anche finiti sotto inchiesta). Non ha più saluto delegare. E oggi eccolo qui, crollare come un castello di carta, di fronte alle “entrate sovrastimate”, ai “pareggi di bilancio”, ai “crediti da riconoscere/transigere verso le società partecipate”. Incombenze di cui il sindaco non s’è mai curato granché. Ma che tuttavia, in caso di processo e di condanna, potrebbero infettare un altro titolo onorifico, richiamato ieri dal suo grande rivale Fabrizio Ferrandelli: quello di campione “di trasparenza e correttezza”.

Nell’ultima intervista a Repubblica, prima che i finanzieri si presentassero all’ennesimo summit internazionale (il Global Parliament of Mayor) per consegnarli l’atto di conclusione delle indagini, Orlando aveva rappresentato il suo universo un po’ effimero: “Non ci sono sindaci come me. Ho attraversato tutte le fasi di questa città, dividendo letame e perle. Ho affrontato tutte le contraddizioni. Senza contraddizioni Palermo è morta”. E ancora: “C’è stata una fase in cui da giustizialista invocavo il rispetto del diritto, e non me ne pento. Grazie alle vittime della mafia Palermo ha scoperto la legalità. Poi, grazie alla sofferenza dei migranti, ha scoperto la cultura dei diritti”. E così via. Concetti alti che cozzano con lo stato di sofferenza delle periferie; con la mancata attivazione dei Puc (i piani di utilità collettiva) che ridarebbero dignità e vigore ai beneficiari del Reddito di cittadinanza; con la situazione catastrofica di Mondello alle prime gocce di pioggia; con la discarica satura di Bellolampo. Di esempi ce ne sono una marea. Ma di fronte alle difficoltà “terrene” il professore non ha più avuto una parola di conforto o d’impegno, ha sempre preferito rifugiarsi nella “visione”. E senza più occuparsi di Palermo, ha svolto con dedizione e impegno il ruolo di presidente dell’Anci, ossia l’associazione che riunisce i 390 comuni siciliani, per i quali ha chiesto un contributo dallo Stato (fino a ieri mattina).

Orlando è grandezza, apparenza, teatralità e un po’ anche finzione. Un sindaco disarcionato dalla realtà, capace di guardare oltre: “Farò il presidente del Mondo”. In realtà, a 74 anni, potrebbe ambire a un ruolo di rappresentanza, a una fascia da indossare, ma fuori dagli schemi dell’impegno politico (reale). Sarebbe un perfetto ambasciatore: con le parole incanta, conquista. Mentre sarà più difficile convincere la coalizione di centrosinistra a puntare su di lui per la presidenza della Regione. I rapporti col Movimento 5 Stelle sono sempre stati complicati. Il suo riavvicinamento al Partito Democratico potrebbe aprirgli uno spiraglio per Roma, magari al Senato della Repubblica. O più semplicemente, come ha ribadito lui stesso, potrebbe accontentarsi di scrivere libri. Sicuramente non rimarrà con le mani in mano. Nel futuro prossimo, però, dovrà occuparsi di questo maledetto processo che lo riguarda – sui conti della dannata Palermo – che gli sottrarrà tempo ed energie. “Non si falsificano i bilanci per coprire i buchi – si è già discolpato – allora meglio il default”.

Ma le accuse dei magistrati, gli sfottò di Salvini, la rassegnazione di molti suoi concittadini, più che nuocergli adesso – nei mesi che rimangono – potrebbero offuscarne il mito, in futuro. E impedirne l’ingresso trionfale della Hall of Fame dei migliori politici di tutti i tempi, a cui il fondatore della Rete, quello che “il sospetto è l’anticamera della verità”, pensa di meritare. Un giorno, ripensando a quant’è diventata grama la vita, potrebbero girargli parecchio le scatole.