Con quaranta gradi all’ombra e il casino che c’è alla luce del sole, il principale partito della sinistra italiana – si diceva così, una volta – assurge all’onore delle cronache – udite, udite – perché a Cesena una sua parte è riunita per fondare una corrente, l’ennesima. E in verità neanche la fonda perché Stefano Bonaccini è più collaborativo con Elly Schlein (ci sono le Europee) rispetto ad altri. E a Roma, invece, un’altra parte organizza, dandola a Nicola Zingaretti, una fondazione. Ma non come un luogo di ricerca e di pensiero (già, il pensiero, chi era costui?) ma come l’ennesimo spazio, pure quello, correntizio. Presentato così, con quel linguaggio che ha reso il Pd estraneo a ciò che interessa gli italiani, e infatti perde e continua a perdere le elezioni, continuando a rimuovere il problema e a perseverare in un meccanismo uguale a se stesso: “Si muoverà nel quadro politico degli equilibri congressuali”. Cioè una specie di caminetto per condizionare la segretaria che non parla con nessuno, ma senza disturbarla più di tanto.

Misurata col metro del casino che c’è attorno, è roba da abrogare la legge Basaglia e chiedere l’intervento degli infermieri o materiale buono per un remake morettiano, nel senso di “con questi dirigenti non vinceremo mai”, con buona pace delle chiacchiere sulla discontinuità rappresentata dalla nuova segretaria (finora, non pervenuta). La realtà è l’hotspot di Lampedusa al collasso con quattromila persone, gli sbarchi fuori controllo oltre quota 80mila (di questo passo ad agosto si arriva a centomila), lo splashdown annunciato sul Pnrr, la questione sociale e la giustizia, eccetera eccetera. Semplicemente, il Pd sul terreno della realtà, non c’è. Dalla segretaria giù per li rami: supporter e critici. Anche dove, per la prima volta, ha messo in campo un barlume di proposta, sacrosanta, sul salario minimo, più che una vera iniziativa, è solo un approccio di testimonianza, tutta parlamentare.

Quello che manca, per stare ai classici, è una piattaforma complessiva, condivisa col sindacato, coi giovani, col mondo del lavoro che prenda corpo in un’organizzazione del conflitto nella società. E che colleghi l’aspetto specifico del salario minimo alla più ampia questione salariale, anche nei salari “medi” (cui si rivolge la premier col cuneo) e al tema di una legge sulla rappresentanza, in un paese dove il Cnel ha certificato mille contratti, senza sapere chi sono i firmatari. Perché, ammesso e non concesso che ottieni il salario minimo e ne rimandi l’applicazione alla contrattazione, in questa giungla contrattuale sei punto e a capo. Insomma, se non aggreghi la grande massa dei salari decurtati e non sviluppi un’azione anche dal basso, il tutto è inefficace. Dura lo spazio di una azione a livello parlamentare su cui, tra l’altro, i sindacati (non informati prima in una strategia comune) sono divisi.

Ecco, l’iniziativa è la parola su cui si misura la separazione della realtà. Di posizionamento sul salario minimo, di retroguardia e tutta in scia dei Cinque Stelle sul caso Santanchè: non ci voleva Palmiro Togliatti per prevedere che qualcuno l’avrebbe presentata, anche se non produrrà le dimissioni del ministro. Si sa, ormai va così: le mozioni non si orchestrano per conseguire un risultato parlamentare, ma il risultato è tutto extra-parlamentare in sé, nel senso di costruzione di un’opposizione nel dibattito pubblico. E non è certo una bella figura dire prima che non serve e poi accodarsi a Giuseppe Conte, tanto valeva intestarsela. Ed è invece inesistente (l’iniziativa) sul vero punto debole del governo, l’immigrazione di cui comprensibilmente non parlano né la destra né i suoi giornali, che a parti invertite avrebbero suonato la gran cassa. Per carità, c’è l’indignazione umanitaria, farcita di retorica buonista, ma se la linea è “accogliamoli tutti”, ci sarebbe solo da compiacersi che il governo, a sua insaputa, sta realizzando il programma del Pd, perché le coste sono un colabrodo e sta arrivando mezza Africa. Linea che non ha alcuna sinistra al mondo, da Joe Biden alla premier danese a Pedro Sanchez.

Ed è proprio sul dossier internazionale che la solita postura declamatoria segnala una significativa involuzione politica, tipicamente gruppettara: il problema non è coniugare opposizione e interesse nazionale, ma essere contro a prescindere, senza indicare una prospettiva. Il ministro dell’interno spagnolo, socialista, ha considerato un passo in avanti l’accordo siglato da Ursula von der Leyen a Tunisi, voluto dal governo italiano. Perché pur non essendo un accordo sull’immigrazione (il limite) esso rappresenta una prima assunzione di responsabilità europea sul tema dell’Africa: una parte dei fondi europei non sono subordinati al negoziato tra la Tunisia e l’Fmi, le cui condizioni rigide – in termini economici, non di diritti – sono osteggiate dai sindacati e dai lavoratori tunisini. Si può dire: “E’ la direzione giusta, su cui peraltro Giorgia Meloni rinnega i deliri della separazione dell’Africa da realizzare con il blocco navale, ma non è sufficiente”, si dice: “tutto sbagliato”. E allora la domanda è semplice: se Elly Schlein sostiene che quell’accordo non è rispettoso dei diritti umani, perché non pone il problema, nell’ambito del Pse, di ritirare il sostegno a Ursula? La presidente che a Tunisi ha violato i diritti è la stessa lodata per aver resistito, qualche giorno prima, all’attacco di Weber sul clima e considerata un baluardo rispetto all’altra prospettiva di assetti europei, incarnata sempre da Weber.

La risposta (all’interrogativo) è semplice, e sta nel primato della propaganda sulla politica, di cui altro sfolgorante esempio sono le timidezze nel riconoscere il buon operato del governo su Patrick Zaki, speculare a quello che faceva Giorgia Meloni, dall’opposizione, ai tempi dei marò, cui contribuisce anche la ritrosia del “liberato”, perfetto per un seggio al Pd alle Europee. Come se, in un paese civile, non ci possano essere momenti in cui si sottolinea, su grandi questioni, una vittoria del paese, nella differenza dei ruoli e delle idee. Questa non è opposizione, e non è neanche autentica radicalità. È una specie di assemblea studentesca, in un mondo a parte.