L’ultimo atto pratico è l’insediamento dell’Assemblea dei Sindaci, per effetto di una norma transitoria votata dall’Ars su proposta della deputata dei Cinque Stelle, Gianina Ciancio: “Adesso, provvisoriamente, saranno i sindaci a costituire l’ex consiglio provinciale, e non più un uomo solo al comando nominato dal governo”, ha detto la parlamentare regionale, riferendosi ai commissari. Peccato che i problemi delle ex province, oggi Liberi Consorzi di Comuni (o città metropolitane) giacciano irrisolti da una decina d’anni. Sono state commissariate nel 2013 a seguito della decisione (populista) dell’ex governatore Crocetta di anticipare sul tempo la Legge Delrio, che sarebbe piombata sul resto d’Italia nel 2014. E che una recente sentenza della Corte Costituzionale, per altro, ha ritenuto l’attuale disciplina sui sindaci delle Città Metropolitane “in contrasto con il principio di uguaglianza del voto”, tanto da pregiudicare “la responsabilità politica del vertice dell’ente nei confronti degli elettori”.

La storia delle ex province siciliane, dove nel frattempo si è speso un miliardo per nulla, è una plastica dimostrazione del fallimento della politica regionale. Del “governo del fare” sponsorizzato coi fondi del PO FESR che in fondo, non ne becca una. Si rende necessaria, però, una precisazione: laddove la politica siciliana ha fallito, è stato il tentativo di ripristinare la democrazia all’interno di queste scatole vuote. Che invece, per il solito ritornello del manuale Cencelli, si sono rivelate uno strapuntino ideale (ma non così ambito) per i commissari. Il governo e la maggioranza ci hanno provato più volte (tre negli ultimi due anni), l’ultima indicendo le elezioni di secondo grado – cioè chiamando al voto i sindaci e i consiglieri comunali – lo scorso 22 gennaio. Ma prima del 2 gennaio, ultimo giorno utile per la presentazione delle liste, un’altra leggina trasversale, maturata a Sala d’Ercole, ha cancellato questa prerogativa (nonostante la ferma opposizione degli assessori Cordaro e Falcone dai banchi del governo). Includendo, però, la norma transitoria di cui si vantano i Cinque Stelle. Che fra l’altro stavano con Crocetta quando l’ex governatore, stuzzicando la pancia dei siciliani con la scusa di applicare la spending review, decise di troncare gli enti d’area vasta in diretta da Giletti.

Da quel momento si sono succeduti numerosi tentativi per riportarle, in qualche modo, in vita. A partire da una legge approvata dall’Ars negli ultimi mesi di governo Crocetta per la reintroduzione del voto diretto per l’elezione del presidente e del Consiglio provinciale. Un tentativo cancellato dalla Corte Costituzionale dopo l’impugnativa proposta dal Consiglio dei Ministri (guidato da Paolo Gentiloni), con la sentenza n.168 del luglio 2018 in cui si esplicita che “le disposizioni sulla elezione indiretta degli organi territoriali, contenute nella legge n. 56 del 2014, si qualificano, dunque, come «norme fondamentali delle riforme economico-sociali, che, in base all’art. 14 dello statuto speciale per la regione siciliana, costituiscono un limite anche all’esercizio delle competenze legislative di tipo esclusivo». Per Musumeci, che nel frattempo aveva assunto le redini del comando, si trattò un’offesa alla “dignità del popolo siciliano e della sua plurisecolare vocazione autonomistica. L’avere di fatto cancellato, con un colpo di spugna, l’articolo 15 del nostro Statuto che riserva alla «legislazione esclusiva della Regione la materia di organizzazione e controllo degli enti locali» denuncia il malcelato e progressivo tentativo romano di smantellare l’Istituto autonomistico”, disse il governatore. Che da quel momento, però, non ci ha più riprovato.

La decadenza delle province ha trascinato con sé una lunga serie di competenze che non sono mai state dirottate verso altri enti: a partire dalle strade secondarie, quelle provinciali, di cui il governo regionale dichiara di non potersi occupare (e nonostante ciò, dice di aver investito 300 milioni per ripristinare le trazzere interne); tra i servizi trascurati ci sono pure quelli relativi alle scuole superiori, all’assistenza per i disabili, alle autorizzazioni ambientali. Inoltre, in tutti questi anni, circa 5 mila dipendenti provinciali sono rimasti in balia degli eventi, spesso pagati in ritardo; e molti bilanci degli enti intermedi sono stati approvati a scoppio ritardato. Per alcune province, Siracusa in primis, si è palesato l’incubo del dissesto economico-finanziario. E nessuno, al netto di qualche finanziamento piovuto da Roma, ha mosso un dito per risolvere questa piaga. Anche gli stanziamenti annuali promessi da palazzo d’Orleans restano al palo in attesa dell’approvazione della Legge di Stabilità (con cui, fra l’altro, non è detto che la Regione potrà assegnare i soldi in maniera tempestiva).

Esiste, però, un’ultima tentazione da parte della politica. Un colpo di coda della legislatura che è stato messo nero su bianco lo scorso febbraio dal gruppo parlamentare della Lega. Ripartendo dalla sentenza della Corte Costituzionale dello scorso dicembre, che di fatto sancisce l’inapplicabilità della Legge Delrio, i deputati del Carroccio Marianna Caronia e Antonio Catalfamo hanno depositato un disegno di legge che prevede “l’elezione diretta e a suffragio universale dei Presidenti dei Liberi Consorzi e dei Sindaci delle Città metropolitane, con una votazione a turno unico senza ballottaggio, ed elezione diretta degli omologhi Consigli, che avranno un numero variabile tra 18 e 36 di consiglieri, in base alla popolazione residente nella provincia di riferimento, con la reintroduzione dei collegi elettorali esistenti per le precedenti elezioni provinciali”. Ma anche “l’introduzione della doppia preferenza di genere (in caso di espressione di due voti di preferenza per il Consiglio, gli stessi devono obbligatoriamente riguardare un candidato ed una candidata)”.

“La questione relativa all’assetto istituzionale degli organi degli enti intermedi – affermavano i sette deputati leghisti all’ARS, lo scorso 15 febbraio – si trascina irrisolta da ormai nove anni, ossia fin dall’entrata in vigore della legge regionale 7 del 2013 che ha previsto la soppressione delle Province regionali. Dal 2013 – secondo Catalfamo, Caronia, Ragusa, Pullara, Figuccia, Cafeo e Sammartino – però è profondamente mutato l’orientamento politico e culturale sulla questione, come confermato dal Referendum del 2016 e dalla sentenza della Corte Costituzionale 240 del 2021 che ha fortemente criticato l’attuale situazione di disparità fra le aree metropolitane (il cui Sindaco e automaticamente quello del capoluogo, eletto dai cittadini) e le altre province, i cui cittadini sono di fatto espropriati del diritto ad eleggere il proprio presidente”.

“Ormai da nove anni – conclude Marianna Caronia – le ex province sono state progressivamente svuotate di poteri e risorse, con un danno gravissimo per i territori amministrati e per i servizi ai cittadini; uno svuotamento di poteri e risorse che è coinciso con un indebolimento dei processi di partecipazione e rappresentanza dei cittadini, simboleggiati dall’assenza di elezioni democratiche e da continue nomine di commissari. Oggi è il momento di riaprire il dibattito e trovare una soluzione legislativa che permetta di restituire al più presto ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti”. Ottenere un passo avanti prima della fine della legislatura potrebbe avere un effetto domino anche sulla prossima campagna elettorale. Un tentativo verrà fatto, c’è da giurarci.