Qualcuno della “casta” pensa davvero che il ritorno delle province possa aumentare “gli spazi di democrazia diretta e di espressione politica” come sostiene il presidente Schifani? Crede davvero che i siciliani, dopo aver disertato le urne alle ultime Regionali – affluenza sotto il 50% nonostante l’Election Day – bramino dalla voglia di contribuire al riciclo della classe dirigente all’interno di organismi morti e sepolti? Nei comunicati carichi di sentimento a supporto della decisione del governo, s’è letto anche questo: come se i cittadini non aspettassero altro che il ritorno degli enti intermedi per catapultarsi alle urne ed esercitare un diritto al voto che oggi risente – in negativo – dell’inadeguatezza della proposta e di certa rappresentanza. Basti pensare che la riesumazione delle province, al netto della sessione di bilancio, è una delle pochissime proposte di legge che avrà varcato il portone di Sala d’Ercole entro l’inizio della primavera (cioè in cinque mesi di legislatura). Come se non esistessero altre priorità.

E’ il classico esempio della distanza abissale fra il palazzo e ciò che vi è fuori. Ma soprattutto del tentativo “inciucista” della politica siciliana, che aveva già fatto registrare notevoli passi avanti con la vicenda dell’adeguamento Istat, oltre che con le numerose marchette inserite nella Finanziaria omnibus; e che con la storia delle province trova orizzonti nuovi di condivisione. Tutti hanno accolto con giubilo la proposta di Schifani, e soprattutto la prospettiva di poter migliorare il disegno di legge sia in Prima commissione (Affari istituzionali) che in aula. Persino i partiti d’opposizione, che sono protagonisti di questo disegno trasversale solo abbozzato dal centrodestra.

Dopo aver fatto una guerra (di cartone) sull’adeguamento Istat di 890 euro, arrivando a contendere la palma del populismo a Cateno De Luca, anche i Cinque Stelle si dichiarano a favore della reintroduzione delle province, che loro stessi, nel 2013, erano stati propensi a cancellare per abbattere i costi della politica. L’unica cosa ad essere abbattuta, oltre alla credibilità di Crocetta, furono le funzioni esercitate dagli enti d’area vasta: “Sulle Province non abbiamo cambiato idea – si giustificano oggi i grillini -: eravamo e siamo per il contenimento dei costi e delle poltrone, ma occorre garantire al contempo servizi efficienti per i cittadini, cosa che il governo Musumeci non è stato in grado di fare, provocando i disastri che sono sotto gli occhi di tutti. Se proprio devono essere ripristinate, non siamo contrari, purché funzionino ottimamente e non siano meri poltronifici per trombati delle elezioni, cosa che crediamo sia purtroppo negli intendimenti del centrodestra”.

Ed è proprio questo il punto. Come si fa ad essere d’accordo su una proposta che, già nei numeri, appare sospetta? Nel raffronto di Repubblica, risalente a qualche giorno fa, il ddl siciliano è oltremodo “generoso” rispetto alla bozza romana che prevede l’abrogazione della riforma Delrio: nel dettaglio, per le province con popolazione superiore al milione di abitanti (Palermo su tutte) sono previsti 36 consiglieri e massimo 9 assessori; per quelle tra cinquecentomila e un milione di abitanti, 30 consiglieri e fino a 7 assessori, mentre quelle con meno di 500.000 abitanti potranno eleggere 24 consiglieri e le giunte avranno massimo sei assessori. Totale: 252 consiglieri e 63 assessori. Contro i 210 consiglieri e i 48 assessori previsti dalla bozza del disegno di legge presentato in Senato.

La Sicilia, come sempre, rappresenta un laboratorio. Un po’ elefantiaco in questo caso. E comunque – ci hanno già fatto notare i politici più austeri – è stata applicata la scure rispetto ai numeri lasciati in eredità da Crocetta (prima del clamoroso taglio avvenuto in diretta tv da Giletti e confermato dopo un paio di settimane all’Ars, sempre nel marzo 2013): all’epoca c’erano 305 consiglieri e 95 assessori. Per occupare tutte le nuove poltrone – sempre che la proposta di riforma venga condivisa dall’Ars, e possibilmente aggiustata un po’ – non ci vorrà un casting. Gli affluenti della prossima competizione provinciale, infatti, si sono già palesati: nelle città al voto, ad esempio, dove un enorme massa di delusi eviterà di rendere scomodo il day after di vincitori e vinti; nel sottogoverno regionale, dove non c’è stato abbastanza spazio per tutti (sia nelle partecipate, che nella sanità). E via discorrendo. Trecento poltrone sembrano tante, ma non si farà alcuna fatica a riempirle.

Ma il punto di forza della nuova legge è il voto concesso ai cittadini, e non soltanto a sindaci e consiglieri (come previsto dalle elezioni di secondo livello che Musumeci avrebbe voluto celebrare così tante volte da perderne il conto): “Dopo il lungo iter che ha portato alla definizione dei Liberi Consorzi, durante i cinque anni del governo Musumeci abbiamo atteso invano le elezioni degli organi degli enti – ha scritto il capogruppo del Pd all’Ars, Michele Catanzaro -. A questo punto di fronte ad una costante incertezza, ai ritardi del centrodestra ed alla necessità di riassumere la piena governance delle competenze degli enti, ad iniziare da scuole e strade, meglio un ‘ritorno alle province’ piuttosto che lasciare tutto in questo limbo istituzionale”. Anche il Pd, oltre al M5s, s’accoda. Figuratevi a destra. Il partito unico del “meglio le elezioni dei commissari” è già schierato.

Non sarà affatto difficile giungere a un compromesso. Con una pagnotta di mezzo è più semplice ragionare, interloquire, smussare, correggere. Per gli aumenti delle indennità dei parlamentari non è neanche servito. Il ricco adeguamento Istat è giunto in aula fra le scartoffie (nemmeno analizzate) del bilancio dell’Ars. E quasi tutti, in sordina, si sono ritrovati a condividere una linea: approvare e poi negare. Oggi i partiti sono ancora lì che tentano di rimediare alla ‘svista’: qualcuno versando le somme in beneficenza, altri annunciando la ‘rinuncia’ agli uffici della Ragioneria, altri strutturando ddl abrogativi che non stanno in piedi. Il primo assegno però è partito. Mentre a beneficiare dell’aumento – non solo delle indennità, ma anche dei vitalizi (stesse scartoffie) – saranno anche i pensionati dell’Ars. Ex deputati e assessori che si ritroveranno a godere del bonus (un po’ meno ricco dei parlamentari in carica) a fine mese. Di loro nessuno ha protestato: giammai.

Ecco. Di fronte a una simile evidenza, che nemmeno le lacrime di coccodrillo possono confutare, immaginate con quale voglia i cittadini siciliani abbiano accolto la proposta di tornare al voto per le province, massimo entro l’autunno (ma i Cinque Stelle, chiedono che si voti in prossimità delle Europee “in quell’ottica di risparmio che deve essere sempre la bussola che orienti il nostro cammino”). Con quale voglia andranno alle urne? Per fare un favore a chi? Per sostenere una “casta” che continua ad autoalimentarsi con tutti i mezzi leciti e meno leciti? Grazie, ma sarà per la prossima.