Il Terzo Valico dei Giovi si farà. Un’infrastruttura strategica da oltre 6 miliardi che collegherà Genova a Tortona, attraversando il Nord-Ovest. I cantieri avanzano, il governo ci crede, le risorse vengono trovate. Anche a costo di togliere fondi altrove. Anche a costo, per esempio, di scippare alla Sicilia 900 milioni di euro. Fra la legge di Bilancio e il decreto Milleproroghe, quattordici piani nazionali – dal fondo per la mobilità sostenibile ai contributi per le ciclovie, passando per rigenerazione urbana e manutenzione stradale – sono stati tagliati del 70% per recuperare 10,7 miliardi da qui al 2036. La parte spettante alla Sicilia ammontava a circa 900 milioni. Ma adesso non c’è più.
Quei soldi non andranno al Ponte sullo Stretto (che la Regione ha “dovuto” co-finanziare, cedendo a un blitz di Salvini, per 1,3 miliardi a valere sui Fondi di Sviluppo e Coesione). Non serviranno ad accelerare i cantieri sulla Palermo-Catania, né a rattoppare le strade provinciali dell’entroterra. Andranno invece a coprire i maggiori costi del Nord, Liguria in testa. È l’ennesima prova di uno squilibrio strutturale nei rapporti tra centro e periferia, tra l’Italia che corre e quella che resta indietro.
A lanciare l’allarme è stato il presidente dell’Unione delle Province italiane, Pasquale Gandolfi. A raccoglierlo sono stati, con toni preoccupati, i presidenti dei Liberi Consorzi siciliani e l’Anci regionale. Solo per il biennio 2025-2026, la Sicilia perde 34 milioni per la manutenzione straordinaria delle strade. Progetti già programmati e pronti a partire, improvvisamente congelati. «Il rischio – dicono – è il collasso progressivo della rete viaria secondaria». Ma non è solo un problema di collegamenti: è una questione di dignità istituzionale, di credibilità dello Stato, di equità territoriale.
E intanto anche il Pnrr, che avrebbe dovuto colmare i ritardi infrastrutturali del Mezzogiorno, comincia a perdere pezzi. La scorsa settimana, a Palazzo Chigi, è stata formalizzata la rimodulazione dell’investimento sulla linea ferroviaria Palermo-Catania. Salta l’intero lotto Catenanuova-Dittaino (588 milioni di euro) e parte del lotto Dittaino-Enna (616 milioni), perché i lavori non potranno concludersi entro giugno 2026, la data imposta dall’Europa. Le ragioni? Le solite: problemi progettuali, carenza di manodopera, complicazioni legate alla siccità.
Ferrovie dello Stato promette che le opere verranno portate avanti con altri fondi, ma non è detto che quei fondi ci saranno. O che non vengano sottratti ad altri investimenti già programmati (l’eterno gioco dell’oca). «Così il Piano rischia di aumentare il divario tra Nord e Sud, invece di ridurlo», denuncia Alfio Mannino, segretario della Cgil siciliana. Fabrizio Micari, di Italia Viva, è ancora più esplicito: «Ci diranno che i lavori si faranno lo stesso. Ma se li finanzi con altri fondi, non li userai per il resto. E intanto i fondi Pnrr finiranno ad altre regioni più pronte e più veloci».
A questa doppia umiliazione – taglio dei fondi statali e definanziamento dei progetti Pnrr – si aggiunge una terza beffa: il Patto di coesione firmato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal governatore Renato Schifani il 27 maggio 2024 a Palermo, al Teatro Massimo. Un evento celebrato come l’inizio di una nuova era, con tanto di platea, firme solenni e titoloni sui giornali. Di quel Patto, che assegna alla Sicilia la quota più consistente del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (oltre 5,2 miliardi, al netto di quelli stornati su Ponte e termovalorizzatori), non si è speso ancora un solo euro. Dal monitoraggio del Ministero dell’Economia aggiornato a febbraio 2025 emerge che la Sicilia è l’unica a non avere speso né impegnato una quota significativa di quei fondi. La Campania – che ha firmato dopo – ha già investito 89 milioni. Il Lazio è a 47 milioni. La Calabria a 33. Persino il Molise ha impegnato un milione. La Sicilia, invece, è ferma. Zero assoluto.
I progetti non mancherebbero: ci sono nuovi ospedali, interventi su dighe e impianti sportivi, ristrutturazioni di teatri e fiere, centinaia di milioni destinati alle imprese. Ma tutto resta sulla carta. Se non si considera una residuale anticipazione che porta il dato di spesa allo 0,41%. Una vergogna che si somma a quella dei fondi europei non spesi e dei cantieri mai partiti.
Il quadro è devastante (e forse definitivo). Ma la classe politica siciliana si limita a commentare, a denunciare a mezza voce, a fare spallucce. Nessuno impone un cambio di passo. Nessuno chiede una riforma del sistema. L’Assemblea Regionale è ferma, incapace di legiferare su qualunque tema che non sia una spartizione di mance o qualche sanatoria (piccolo e recente inciso: con la sentenza n. 72, la Corte costituzionale ha chiarito che non si può aggirare il divieto di edificazione nella fascia costiera, entro i 150 metri dal mare, neanche con leggi urbanistiche o deroghe di comodo). Il governo Schifani si aggrappa alla contingenza per giustificare immobilismo e ritardi. Mentre i fondi veri – quelli che servirebbero per colmare il gap, per creare lavoro, per rendere la Sicilia un’isola collegata e vivibile – vengono cancellati, deviati, dimenticati.