Forza Italia, all’Ars, è un gruppo fantasma. Quando c’è da chiedere conto al presidente della Regione, preferisce il silenzio. Quando serve un confronto aperto, si dissolve. Quando deve mostrare i muscoli, si affloscia. Non è un caso che l’incontro con Schifani, programmato per il 9 settembre, alla riapertura di Sala d’Ercole, sia stato cancellato: il governatore non gradiva che la notizia fosse già filtrata sui giornali. Meglio allora ricevere i deputati uno per volta, a porte chiuse. È il rito della contrattazione privata, sostitutivo della politica.

Ha iniziato qualche giorno fa alla festa di Totò Cardinale, a Mussomeli, dove ha potuto imbastire qualche discussione preliminare con gli esponenti in quota Sicilia Futura: Edy Tamajo e Nicola d’Agostino. Ma la prima a presentarsi al cospetto del “capo” è stata Luisa Lantieri, vice di Galvagno all’Ars, che a La Sicilia ha dichiarato con candore: «Il presidente è il mio punto di riferimento. Gli ho chiesto garanzie e strumenti per le battaglie sul territorio. Non metto in discussione gli assessori e non chiedo poltrone». Tradotto: non oso fiatare, ma portatemi almeno qualche risultato da esibire a casa. Niente di più, niente di meno.

Sembra un riferimento alle mance, che torneranno di modo con la manovra quater. In realtà le mance sono l’unica misura in grado di richiamare all’ordine i dissidenti. Ma non è (solo) questo il punto. In realtà, il gruppo forzista non ha avuto nemmeno la forza di pretendere un confronto collegiale, per ribadire che FI è stata penalizzata dalla scelta degli assessori e che i risultati delle Europee – contrariamente a quanto affermano i vertici regionali – sono “dopati” dal supporto di altri partiti.

Una scelta, quella del silenzio, che equivale a una resa. E che consente a Schifani di governare come un feudatario circondato dai propri vassalli: nessuna discussione, nessuna linea politica, solo una processione di suppliche individuali. A fare da campiere, con il compito di mantenere l’ordine, è Stefano Pellegrino. Il capogruppo, beccato dal governatore dopo aver osato chiedere fondi aggiuntivi per smaltire la monnezza all’estero e per gli Asacom – provvedimenti a favore dei Comuni – è tornato fra gli “allineati” senza neppure sfruttare l’onda lunga della protesta innescata da Falcone, Mulè e Calderone: “Che il dibattito avvenga sistematicamente attraverso la stampa, senza un reale confronto, o, peggio, filtrando pezzi di comunicazioni private, non è utile a Forza Italia, e soprattutto tradisce la fiducia dei nostri iscritti, che meritano chiarezza e coesione”. Queste le parole di Pellegrino, immemore del fatto che i primi a evitare accuratamente il confronto sono quelli della sua corrente.

Eppure i segnali di malessere non mancano. In aula, durante la votazione sulla riforma dei Consorzi di bonifica, diversi parlamentari azzurri (da Gennuso alla Grasso) scelsero il non voto, lasciando il presidente esposto a una figuraccia. Stessa sorte per alcune norme contenute nell’ultima Finanziaria: la legge sull’editoria, i contributi per i laghetti artificiali, persino l’acquisto dell’immobile di via Cordova a Palermo. Tutte affondate, spesso grazie ai franchi tiratori che dentro l’urna si trasformano in leoni, salvo poi ridiventare agnellini appena si riaccendono le luci.

La verità è che le uniche contestazioni a Schifani sono arrivate da chi, formalmente, non fa parte del gruppo di Palazzo dei Normanni. Marco Falcone, che ha imboccato un’altra strada; Giorgio Mulè, che da Roma ha provocato il governatore con la vicenda del film su Biagio Conte; Tommaso Calderone, che ha lanciato la proposta di rendere trasparenti i rapporti tra politica e manager delle aziende sanitarie. Tutti “forestieri”. I forzisti dell’Ars, invece, si sono limitati a mugugnare sottovoce.

Intanto il presidente si affida ai suoi due “scudi”: Alessandro Dagnino all’Economia e Daniela Faraoni alla Sanità. Due tecnici scelti per guidare assessorati chiave, e che nel tempo hanno assunto il ruolo di guardie del corpo politiche. Parlano al posto dei deputati, bacchettano chi critica, si arrampicano sugli specchi pur di difendere l’indifendibile. Dagnino si è permesso di correggere Mulè, negando la possibilità di usare il fondo di riserva per il film sulla vita del missionario laico. La Faraoni, dal canto suo, replica goffamente alle contestazioni sui disastri della sanità, e si dimena per evitare che la nuova rete ospedaliera, attesa da un altro passaggio in Assemblea regionale, venga rigettata dalla sesta commissione. Ci riuscirà?

Così il gruppo forzista, schiacciato tra l’obbedienza e l’irrilevanza, ha smarrito del tutto la sua funzione politica. Non detta l’agenda, non difende i territori, non partecipa all’azione di governo. Subisce. E attende. Non a caso, persino la candidatura di Marcello Caruso alla segreteria regionale è stata digerita come un fatto compiuto, malgrado Falcone l’avesse bollata come l’ennesima mossa da “funzionario”.

In questo deserto politico, resta solo la certezza di un partito che si regge su un equilibrio fragile. Schifani tira a campare, blindato dai tecnici. I deputati forzisti recitano la parte dei fantasmi: presenti solo nell’anonimato del voto segreto, o per qualche comparsata nelle cronache locali. Per il resto, nulla. Il vento del rimpasto è già tramontato. E presto tramonteranno anche i frutti delle contrattazioni private, ridotte a pura liturgia clientelare. L’immagine che resta è quella di un gruppo di conigli in gabbia, più attenti a non disturbare il manovratore che a fare politica.