Dalla parte degli infedeli. Giornalisticamente parlando, s’intende. Dalla parte di quelli che provano a smontare pezzetti del gioco delle parti, del mainstream imperante, pagato agli editori con fior di contributi pubblici. O pensate davvero che nel “gran teatro del mundo” la verità coincida con l’apparenza, la realtà con la narrazione della stessa?

Nelle redazioni la prima regola che si impara è quella di attaccare l’asino dove vuole il padrone. Altrimenti, dietro c’è posto. O fuori.

In tempi normali, e soprattutto in alcuni settori considerati non cruciali, spettacoli, cultura, esteri, c’è tolleranza di pensiero e di opinione. Anzi, è “colore”, come si dice in gergo, dà l’idea di voler mostrare all’occhio del mondo una realtà sfaccettata e composita. Come in effetti è.

In tempi straordinari come quelli che ci è dato vivere, “nell’ora più buia”, vietato celebrare perfino la memoria di Dostoevskij, superlativo scrittore della superba letteratura russa dell’Ottocento, autore di “Delitto e castigo”, “I fratelli Karamazov”, “L’idiota”, romanzo quest’ultimo assai citato al momento per via del titolo, solo quello, che rimanda all’attuale, indiscutibile prevalenza della categoria in oggetto.

Che poi, per ironia della sorte, Dostoevskij si percepiva come un epigono di Gogol, ucraino di nascita, autore dei “Racconti di Pietroburgo” e “Le anime morte”, altri capolavori della universale letteratura prodotta sotto gli zar. “Siamo tutti usciti da Il cappotto di Gogol”, amava dire Dostoevskij che citava nelle sue opere brani e personaggi del maestro. Per via di una vicenda collegata a Gogol, accusato dal filosofo Belinskij di essersi “venduto” allo zar, Dostoevskij fu arrestato, condannato a morte, l’esecuzione sospesa quando si trovava già sul patibolo, il castigo trasformato in quattro anni di lavori forzati in Siberia. E già questo fa capire lo sprezzo del ridicolo di cui bisogna essere armati per ostracizzare Dostoevskij.

Con l’aria che tira perfino su letterati patrimonio dell’umanità, immaginate che succede nelle redazioni inamidate dai finanziamenti della politica, che sono raddoppiati negli ultimi due anni sulla base di un’emergenza sanitaria da narrare alla maniera del governo, secondo regole non scritte ma intuibili.

Non siamo ancora al Minculpop ma ci avviciniamo. E se l’informazione prima non stava tanto bene, adesso è agonizzante sul pensiero unico, di certo non sintesi delle diverse visioni del mondo.

Come dire, la notizia è morta “di” covid o “per” il covid? Perché la pandemia è la causale dei contributi a pioggia sulle aziende editoriali. Tutte o quasi. Ma sul “Rapporto del Dipartimento per l’informazione e l’editoria 2021”, non si specifica se a sostegno dell’emergenza sanitaria oppure per la sua campagna d’informazione.

E’ successo un po’ in tutta Europa. Solo in Italia, da quanto emerge dal rapporto, i finanziamenti pubblici sono passati da 175,6 milioni a 386,6 con un incremento del 120 per cento. A dirla tutta lo Stato spende molto più di quanto dichiara tra “sostegni diretti e indiretti, crediti d’imposta, iva agevolata” e quant’altro.

“Invadunt asinum ubi vult dominus” non significa, però, che l’asino con la cavezza stretta ragioni meglio. Ecco perché siamo stati condannati all’ascolto dell’assordante cicaleccio dei virologi per due anni, 24 ore al giorno, tutti i giorni. Fino alla nuova emergenza, il conflitto Russia-Ucraina. Quando in un baleno i virologi sono stati sostituiti da un nuovo stuolo di esperti, competenti in guerra e pace su scala globale. Con l’asino sempre legato al suo posto. E la cavezza messa in modo tale da indurlo a guardare a senso unico. Alla maniera metaforica degli asini.

La punta dell’iceberg è sempre la Rai. La balena dell’informazione italiana. Exemplum per eccellenza perché ha per editore il governo e il parlamento della Repubblica. Prendiamo il caso di Marc Innaro, onesto corrispondente di lungo corso. Ha cominciato proprio a Mosca e poi, passando per Gerusalemme e il Cairo, è tornato a Mosca.  Un’affermazione: “Basta guardare la cartina geografica per capire che, negli ultimi trent’anni, chi si è allargato non è stata la Russia, ma la Nato”, è bastata a compromettere un’irreprensibile trentennale carriera.

Un putiferio. Un vortice di accuse di filo-putinismo al capo dell’ufficio di corrispondenza Rai a Mosca. La direttrice del Tg1 Monica Maggioni, quella che fu “embedded” tra le fila militari americane in Iraq, per sì e per no lo ha cancellato dal video. Con la scusa che da lì, cioè da Mosca, passava l’inviato del Tg1 Alessandro Cassieri con trascorsi da corrispondente in Russia. “Avendo il nostro inviato, è normale che ci colleghiamo con lui”, ha dichiarato Maggioni, prima che la Rai decidesse di ritirare tutti i giornalisti da Mosca.

I deputati del Pd hanno strillato in coro contro “la falsità palese” profferita da Innaro “ancor più per il momento drammatico che l’Ucraina sta vivendo” e sulle “interpretazioni compiacenti verso i crimini di Putin”. Il Partito Democratico? Proprio quello. Quello che a risalire l’albero genealogico è figlio del Pci, un tempo il più grande partito comunista d’Europa legato a doppio filo rosso con l’Urss, Napolitano docet e anche le reazioni ai carrarmati russi in Ungheria nel 1956 e a Praga nel ’68.

Ma la “Madre Russia” di Dostoevskij ha cessato da tempo di essere di sinistra. E il segretario del Pd Letta, un cognome una garanzia, si è talmente infastidito con Innaro da chiedere l’intervento della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai, anche per garantire maggiore pluralismo e un ricambio generazionale.

Ricambio che non vale, sarà per cavalleria, per la meno giovane Giovanna Botteri, praticantato in Rai, un curriculum da inviata su tutti i fronti, corrispondente negli Stati Uniti dal 2007 dove ha assistito trionfante all’elezione di Obama e piangente a quella di Trump, quasi una sconfitta personale al di là di qualsiasi possibile previsione per una giornalista d’esperienza come lei.

Dopo Washington, la Cina e, adesso, Parigi. L’esperienza di guerra non le manca. E quindi giorni fa sul Tg3 – a proposito degli attacchi che Kiev subisce dalla Russia e della resistenza del popolo ucraino che costruisce molotov “fai da te” – Botteri si è attardata sul come si potenziano le bombe molotov, dettagli misconosciuti al grande pubblico.

“Un particolare tecnico è che il polistirolo nella molotov serve per rendere più forte l’effetto. Quando le bottiglie incendiarie vengono lanciate, diventa una specie di napalm, ancora più devastante”, Botteri dixit in tv. Nessuno nel teatrino della politica vi ha dato peso. Non più di tanto. Altro che commissione di Vigilanza Rai.

Per la serie televisiva: “Due pesi e due misure”, uno sceneggiato senza fine, ricordiamo il memorabile fuori onda sugli ucraini “camerieri, badanti e amanti” pronunciato da Lucia Annunziata & Antonio Di Bella, impagabile coppia del giornalismo italico. Giudizio che sarebbe già disdicevole e becero se profferito da due pivelli qualsiasi. Figuriamoci dal “sancta sanctorum” del pensiero corretto. In quanto tale, unico. Nessuno ha neppure pensato di spostarli dall’altare.

E da Lucia Annunziata, una lunga militanza extraparlamentare a sinistra del Pci, il pensiero corre a Gianni Riotta che con lei ha condiviso gli anni degli esordi al Manifesto. Anni formidabili, cronache dalle Americhe per un giornale di grande fascino intellettuale. Per loro, allora giovani squattrinati, imperitura fama.

Certo la vita cambia. E adesso a Gianni Riotta giorni fa su Repubblica, il giornale di John Elkann, gli viene di stilare “l’identikit dei putiniani d’Italia”, che si trovano dovunque, destra, sinistra, perfino tra i no green pass. Con annessa lista di proscrizione, che non si sa mai dove può finire e l’uso che se ne può fare.

Tra questi “Putinversteher”, come li chiama Riotta, c’è anche Barbara Spinelli, figlia di Altiero, padre fondatore del federalismo europeo concepito a Ventotene durante il confino nell’era fascista. Una che ha mangiato pane e Europa dalla nascita.

E in questo caos, che neppure Mao ci si raccapezzerebbe, solo loro, i nostri eroi amerikani, atlantisti e interventisti sul fronte orientale, non perdono il bandolo della matassa, certi della propria superiorità ideologica e intellettuale. Gauche caviar, al momento a corto di caviar.

Sono quelli che hanno selezionato la propria personale antologia della Spoon River dei giornalisti assassinati, tacitati per le loro idee, per le loro inchieste, per ciò che rappresentavano.

Un nome dimenticato è quello di Andrea Rocchelli, trent’anni, fotoreporter, assassinato nel 2014 assieme all’amico e collega Andrej Mironov, mentre raccoglievano immagini e notizie sui bombardamenti delle milizie ucraine contro le popolazioni civili del Donbass. Divennero bersaglio dei soldati della 95a Brigata aviotrasportata. Che li inseguirono a colpi di mortaio fino a ucciderli.

Anni di indagini e processi non sono bastati a fare giustizia. Solo grazie al documentario “La disciplina del silenzio” trasmesso lo scorso febbraio da Rainews24 e a poche altre voci eretiche come “Contropiano. Giornale comunista on line” i nomi di Andrea e Andrej non sono caduti nell’oblio. L’ufficiale responsabile del reparto che fece il tiro a segno sui reporter è oggi un deputato del parlamento ucraino.

Andrea Rocchelli nella sua breve vita aveva fondato un collettivo di fotografi indipendenti e lo aveva chiamato poeticamente Cesura. Nel suo cammino ha trovato censura.