In Sicilia la politica sembra aver rinunciato a esercitarlo. Quel ruolo che dovrebbe garantire vigilanza sulle risorse e sulle scelte amministrative si è ridotto a poco o nulla. Il controllo, usato male, ha lasciato spazio a sprechi, improvvisazioni e scandali che si ripetono sempre uguali.
Non basta l’improvvisazione quotidiana, ora siamo alle corse disperate contro il tempo. L’ultimo caso riguarda Mimmo Turano, assessore alla Formazione, che ha portato all’Ars un ddl lampo per non perdere cento milioni di euro del Pnrr. Si trattava di recepire le richieste di Bruxelles: aggiornare il catalogo dei corsi, attribuire più valore ai tirocini in impresa. Una modifica banale, ma da fare entro una data precisa. Tutte le Regioni lo sapevano, la Regione siciliana ha aspettato l’ultimo giorno.
Prima si era pensato a un emendamento infilato nella manovra-quater, poi – visto il pantano in cui rischiano di affogare le variazioni di bilancio – si è ripiegato su un disegno di legge autonomo, che ha stravolto l’agenda di Sala d’Ercole. Risultato: Turano che ringrazia commosso le opposizioni per non averlo boicottato. Se non ci fosse stato il loro “atteggiamento solidale” – parole sue – la Sicilia avrebbe perso i soldi. Un paradosso che dice molto: per salvare cento milioni bisogna affidarsi alla benevolenza di Pd e M5s. Il centrodestra ridotto a chiedere una mano ai “nemici” per evitare l’ennesimo disastro.
E Turano non è nuovo a scivoloni. Basta ricordare il famigerato Avviso 7, quando la piattaforma informatica – quella che avrebbe dovuto garantire trasparenza e accesso equo ai fondi della Formazione – è collassata sotto il peso delle domande. Gli enti formatori, dopo settimane di preparativi, si sono ritrovati davanti a una schermata bianca. Un crash che ha mandato in fumo ore di lavoro, costringendo molti a incrociare le dita e ad appendere santini accanto ai computer. Più che una procedura pubblica, una riffa. E la Regione? Mutismo assoluto.
Non è la prima volta che Palazzo d’Orléans inciampa sulla sua stessa inefficienza. Il caso dell’ex palazzo Sicilcassa di via Cordova è già diventato una barzelletta: la Regione voleva comprarlo, ma intanto l’immobile è stato venduto ad altri. Risultato? Centomila euro di perizie tecniche buttati, un’inchiesta della Corte dei Conti per danno erariale e l’ennesima figura da dilettanti. A denunciarlo il sindacato Cobas/Codir, che, a Palermo Today, parla senza mezzi termini di “goffi tentativi” e di “uso irresponsabile delle risorse dei lavoratori regionali”. Perché la Regione, invece di vigilare, si è ostinata a spendere soldi pubblici per inseguire un affare già sfumato.
Capitolo sanità: qui lo scandalo è ancora più grave. L’ultimo episodio arriva dall’Asp di Palermo, dove un alto dirigente – con trascorsi da direttore sanitario – è stato arrestato per corruzione. Non è un dettaglio: i manager delle aziende sanitarie li nomina la politica. Ed è la politica che dovrebbe garantire competenza e trasparenza. Peccato che, nel caso dell’Asp di Palermo, la nomina del nuovo Direttore generale sia congelata da nove mesi. Nove mesi di vacatio, mentre dentro gli uffici prosperano pratiche opache e rapporti torbidi. Il caso che ha visto coinvolta la Samot e il dirigente dell’Asp, che ha confermato di aver intascato mazzette per migliaia di euro, non è un caso isolato: tangenti, affidamenti sospetti e consulenze truccate hanno già fatto storia in questo settore. E ogni volta la politica si limita a dire: “Non sapevamo”.
Ma il caso dei casi resta quello che ha travolto Gaetano Galvagno. Il presidente dell’Ars è accusato di corruzione e peculato. L’inchiesta della Procura di Palermo farà il suo corso, ma la questione di opportunità politica resta tutta lì: un’istituzione cardine dell’autonomia siciliana guidata da un uomo sotto accusa. In un Paese normale ci sarebbe almeno un dibattito acceso. Qui no. Qui il Parlamento continua a litigare su quanti soldi distribuire a ciascun deputato con l’ennesima manovrina. Si chiama “territorialità”, ma è solo l’arte antica della lottizzazione: centomila euro a te, duecentomila a me. Tutto con buona pace dei siciliani, che continuano a pagare le tasse e ad aspettare servizi che non arrivano mai.
E mentre la politica si impantana, anche l’acqua è diventata un’emergenza senza fine. La fotografia scattata recentemente dalla Corte dei Conti è impietosa: il 52% dell’acqua immessa in rete va perso, con punte del 75% a Catania e del 68% a Siracusa. Morosità alle stelle, allacci abusivi, condotte colabrodo. E un paradosso che sembra scritto da Kafka: l’archivio dell’emergenza idrica 2001–2006 è andato distrutto perché… si è allagato. Le dighe funzionano a mezzo servizio.
La soluzione individuata da Schifani? Tre dissalatori pubblici – Porto Empedocle, Gela e Trapani – per un investimento da 167 milioni tra costruzione e gestione biennale, affidati a Siciliacque, società a maggioranza privata che non versa un euro di canone alla Regione. Produzione attesa: 9 milioni di metri cubi l’anno, poco più del 2% dell’acqua che si perde nelle reti. Con un costo quasi triplo rispetto a quello dell’acqua da fonte tradizionale. La Corte dei Conti ha aperto un fascicolo di vigilanza. Schifani ha replicato stizzito: “Fino a che punto la sua attività di controllo può travalicare l’azione amministrativa?”. Ma il problema non è la magistratura, bensì una politica che preferisce appaltare illusioni invece di mappare le reti e fare manutenzione.
Dov’è allora il potere di controllo? Non c’è. O meglio: il controllo viene esercitato solo per garantire che la torta venga spartita senza intoppi. Chi controlla i controllori? Nessuno. Chi impedisce che i soldi pubblici vengano usati come bancomat elettorale? Nessuno. Chi ha la forza di dire che Galvagno non può restare al suo posto? Nessuno.
E mentre l’Assemblea annaspa, il presidente Schifani prosegue il suo tour della speranza: incontri coi leader di partito, promesse milionarie, interviste rassicuranti. La realtà è un’altra: uffici incapaci di spendere, assessori che rincorrono scadenze già perse, sindacati che denunciano sprechi, procure che indagano e cittadini che si arrangiano. La Sicilia di oggi non ha più un governo, ha una macchina che vive di propaganda. E che si illude di poter sopravvivere ancora a lungo distribuendo prebende e sorrisi. Ma prima o poi potrebbe arrivare il conto. Salato…