Senza rullo di tamburi – la circostanza non lo richiede – il governo regionale ha trasmesso all’Ars la nota di aggiornamento al Defr (il documento economico finanziario della Regione), dal quale si evince che la Sicilia è un’isola a crescita zero. “Isola” non è una parola a caso. Buona parte degli scompensi, secondo gli uffici, derivano dal mancato riconoscimento della condizione di insularità – quindi dall’applicazione dello Statuto – e dallo scippo alla voce “investimenti”, che solo di recente il Ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha annunciato di voler riequilibrare con la regola del 34% (consentendo, pertanto, un’equa distribuzione di risorse con le altre aree del Paese).

Il mancato arrivo di 3,5 miliardi nel solo 2018, ha congelato oltre mezzo punto di Pil (un sogno, più che una prospettiva). Così, nel 2019, il Prodotto interno lordo dell’Isola ha fatto registrare un crollo persino superiore alle aspettative: lo 0,4%. Un disastro a cui i numeri, così piccini e così carini, non rendono giustizia fino in fondo. Il leggero aumento del tasso dell’occupazione (+0,3%) è un indicatore che perde senso rispetto alla compressione dell’export: pessimi i dati dei prodotti chimici (-35%) e delle costruzioni. Le imprese attive sono in flessione da oltre dieci anni. Da questo sprofondo rosso si salvano agricoltura e servizi, in particolare quelli che puntano sull’innovazione.

La situazione riflette uno scarso interesse dello Stato per le sorti della Sicilia. Ma di fronte a questo gap, che affonda le sue radici della storia, come si è mossa la politica regionale? Male, ve lo diciamo noi. Solo di recente, stretto nella morsa della Corte dei Conti e del Consiglio dei Ministri, il governo Musumeci ha iniziato a mettere mano ai suoi peccati originali. L’obiettivo è riformare in tre mesi una Regione che da vent’anni è dilaniata da apparati e clientele. I tre mesi sono dettati dall’agenda del governo Conte, che ha “promesso” di spalmare i due miliardi e rotti di disavanzo in dieci anni, qualora la Sicilia rispettasse per una volta gli impegni e desse seguito una serie di riforme che per Roma non sono più derogabili: il pacchetto, fra le altre cose, prevede la riduzione della spesa corrente e il dimezzamento dei costi delle società partecipate. Una lunga sequela di compiti per casa che l’assessore all’Economia Gaetano Armao, parecchio riluttante, ha ribattezzato “cure da cavallo”.

Le feste sono finite, come gli sguazzi. La Regione, per niente abituata a ridurre gli sprechi, in questi giorni s’è trovata di fronte uno scenario da incubo. A fine dicembre è stato varato dalla giunta un piano di riordino delle partecipate – sono quattordici – che prevede paletti rigidi: lo stop alle assunzioni, un taglio del 5% alle spese di gestione e amministrazione e la chiusura delle pratiche di liquidazione – per i soggetti interessati – entro il prossimo 30 giugno. Ma è proprio l’elaborazione di questo schema ad aver portato a galla situazioni imbarazzanti, soprattutto a livello economico. E ad aver certificato che queste società a partecipazione regionale contano al proprio interno una galassia di lavoratori: quasi settemila. Facendo la somma con le piccole partecipate dei Comuni, si arriva a oltre 17 mila dipendenti. In alcune di esse (79) il numero dei lavoratori è inferiore a quello degli amministratori. Questo sì, un chiaro segnale di sistema clientelare.

Ma è impressionante la mole di denaro che le partecipate riservano agli stipendi del personale: quasi il 50% delle spese complessive. Un giro d’affari che nel 2018 è costato la bellezza di 235 milioni di euro (le partecipate erano ancora tredici, poi subentrò la Resais). La più costosa è la Seus, che gestisce l’urgenza e l’emergenza sanitaria (in cui la Regione ha una partecipazione del 53%): per i 3 mila dipendenti, nel 2018, sono stati spesi 103 milioni di euro. La Sas, che nei piani del governo dovrebbe essere riunita a Resais (entrambe aggregano i precari di altri enti), ha investito 57 milioni in stipendi, versando 34 mila euro lordi a Giuseppe Di Stefano, di cui il presidente dell’Ars Gianfranco Micciché contestò ferocemente l’operato in diretta tv, portandolo a dimettersi.

Sul podio dell’assistenzialismo sale l’Ast, l’azienda dei trasporti al 100% regionale. Anche in questo caso costi da orbi: nel 2018 al personale sono finiti 29 milioni. I membri del Cda, il presidente Tafuri e gli altri due consiglieri, portano a casa più di 90 mila euro annui, mentre i revisori dei conti guadagnano 45 mila euro complessivi. In questa speciale graduatoria compare anche Riscossione Sicilia, che lascia nelle tasche dei dipendenti 26 milioni l’anno. Ma non sa ancora che fine farà: sono aperte le interlocuzioni col Ministero dell’Economia per capire se il personale dovrà essere trasbordato all’Ader, l’agenzia nazionale di entrate e riscossione, o se la società potrà andare avanti con le proprie gambe, dato che il governo Musumeci, con una norma ad hoc, le ha consentito di spalmare i debiti (circa 70 milioni) nei prossimi dieci anni, scongiurando la liquidazione. Il compenso del Cda di Riscossione, guidata dall’avvocato Vito Branca, scelto da Musumeci, è di 70 mila euro.

Ci sono poi numerose società in liquidazione. Alcune di esse non hanno più lavoratori a carico. Ma devono corrispondere le indennità di servizio ai liquidatori. Ce n’è una, più di tutte le altre, che grida vendetta. Si tratta di Sicilia Patrimonio Immobiliare, di cui il 75% è in mano alla Regione. Oltre ai costi di amministrazione – 15 mila euro per il presidente del comitato di sorveglianza, Bonaccorsi; altri 12 mila a testa per i due membri del Cda (Maria Assunta Cattuto e Alberto De Gregorio) – il trattamento economico di Fabrizio Escheri, il liquidatore, è di 60 mila euro. Siamo sulle 100 mila euro lorde all’anno. La Spi, che per il 75% è stata rappresentata da una società consortile facente capo all’imprenditore Ezio Bigotti (ora ai domiciliari per corruzione nell’ambito del sistema Siracusa), è finita al centro dello scandalo sul censimento fantasma che il governo Cuffaro le affidò nel 2007, e che non fu mai portato a termine. Aperto di recente, ha rivelato che i dati sono obsoleti e inservibili. Mentre i soldi pagati dalla Regione per la sua realizzazione (siamo sui 110 milioni complessivi, tra fatture gonfiate e contenziosi) sono evaporati in qualche noto paradiso fiscale.

Tutti conoscono la giostra degli sprechi, ma solo adesso sono obbligati a debellarla. Prima l’hanno allevata e custodita, permettendo – chi più chi meno – di affondare una Regione che non hga mai spiccato per lungimiranza. Al governo Musumeci, va da sé, non vengono contestate le idiozie del passato (anche se alcuni assessori di adesso erano assessori anche allora), bensì l’aver confermato l’inerzia. Le imposizioni di Roma e la parifica della Corte dei Conti, che al momento suggeriscono tagli e rigore, in realtà schiudono le porte al futuro. In cui l’obiettivo è proporre delle riforme vere e avviare una crescita che al momento è paralizzata.

Il futuro non ammette errori. Eppure ce ne sono almeno un paio, di potenziali, che pendono sulla testa del governo. Intanto, la mancata fusione di Ircac e Crias, i due istituti per il credito agevolato alla cooperazione e alle imprese, entrambi sottoposti alla vigilanza della Regione siciliana, che il collegato alla Finanziaria del 2018 aveva previsto di incorporare nell’Irca. Era stato approvato un regolamento, ma si resta tuttora in attesa del sigillo della Corte dei Conti e del decreto presidenziale. Che però non arrivano. Giusto un paio di giorni fa, l’assessore alle Attività Produttive Mimmo Turano ha firmato una nota che sottrae i due istituti alle norme stringenti del decreto legislativo 118, quello sull’armonizzazione dei bilanci, e che permette loro di poter erogare le somme ai richiedenti. Ma sullo sfondo resta un’altra ipotesi: l’Irca potrebbe cedere il passo a un nuovo soggetto che comprenda al suo interno anche l’Irfis, una partecipata della Regione (quasi 4 milioni di costi l’anno). Ne verrebbe fuori un maxi istituto del credito siciliano.

L’altra questione su cui da mesi non si muove foglia, è quella che riguarda l’Irsap, ossia l’istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive. Che non ha più un presidente, e nemmeno un commissario (l’ultimo fu Maria Grazia Brandara, imputata con Antonello Montante nel processo di Caltanissetta e fresca di dimissioni alla Ias, un’altra partecipata della Regione). Bensì un commissario ad acta, il funzionario regionale Giovanni Perino, che si occupa degli atti indifferibili e urgenti. Il governo Musumeci aveva proposto la nomina di Gianni Occhipinti, un imprenditore alberghiero del Ragusano, vicino a Diventerà Bellissima, osteggiata sin da subito dal conterraneo Nello Dipasquale, deputato regionale del Pd, secondo il quale Occhipinti non avrebbe i requisiti. Nonostante il silenzio-assenso della prima commissione dell’Ars, a cui spetta la validazione delle nomine governative, la situazione è rimasta incagliata. L’istituto vigilato da palazzo d’Orleans, per statuto, provvede all’adozione “di ogni azione idonea a consentire lo sviluppo delle attività produttive”, all’avvio “di nuove iniziative”, nonché al “potenziamento e l’innovazione di quelle già esistenti”, promuovendo “l’insediamento delle imprese nelle aree destinate allo svolgimento di attività produttive nell’ambito della propria competenza territoriale”. Mica bruscolini. Ma anche qui è tutto fermo. Cui prodest?