Fra interventi sgrammaticati e iniziative ostruzionistiche, la manovra-ter è ferma all’Ars. Schifani contava di approvarla entro oggi, ma il piano è destinato al fallimento (ieri si è votato un solo articolo). Dietro le difficoltà, divenute plastiche col passare delle ore, si celano alcuni motivi profondi: il primo è che la maggioranza non esiste. Il centrodestra, sulla carta, vanta 42 deputati più i 3 di Sud chiama Nord, la stampella garantita da Cateno De Luca. Ma quanti – fra questi – sono realmente leali? Il voto sui Consorzi di Bonifica ha palesato la presenza di almeno dieci franchi tiratori. Potrebbe andare solo peggio.

Il secondo motivo che blocca tutto è la delegittimazione del presidente dell’Assemblea, che nei giorni delle trattative frenetiche, degli emendamenti, del tentativo di avviare almeno la discussione generale, se l’è filata a Roma. Galvagno non c’era (si è intravisto solo ieri) e non gli serve farsi vedere: l’inchiesta della magistratura, che gli ha appena notificato l’avviso di conclusioni indagini, occupa gran parte dei suoi pensieri. Non gode della necessaria autorevolezza – viste le recenti intercettazioni pubblicate dai giornali, relative alla spartizione delle mance – per condurre a un’intesa la maggioranza e l’opposizione. Così anche il testo definitivo, depurato dagli articoli più pesanti, diventa un enigma.

Ma il vero nodo che impedisce a Schifani di ottenere l’approvazione della manovra, cosa a cui terrebbe tantissimo in vista delle vacanze estive, è la sua assenza. Da tutto. Specie dalle dinamiche parlamentari. «Il presidente della Regione non si permetta di dettare i tempi al Parlamento – ha detto a Sala d’Ercole il capogruppo dei Cinque Stelle, Antonio De Luca –. Ha anche la sfacciataggine di chiedere responsabilità alle opposizioni, lui che trova il tempo per tutto e che in due anni e mezzo non ha trovato un giorno per venire a Sala d’Ercole a riferire sugli scandali sanità e turismo che stanno distruggendo il suo governo, la sua maggioranza e, soprattutto, l’immagine delle istituzioni».

Ed è proprio questo il punto. Per evitare l’ostruzionismo di Pd e M5s, questa volta, non sembrano bastare alcune proposte “territoriali” (o mance camuffate) da condividere sull’altare del meno peggio. Ma un segnale sarebbe potuto arrivare dalla presenza di Schifani, già nei giorni scorsi, per parlare di sanità – giacché la rete ospedaliera si è impigliata in commissione e a Stromboli non esiste un’ambulanza per i malati – e di turismo. In questo secondo caso, però, il presidente avrebbe dovuto pronunciarsi sullo scandalo che ha investito i patrioti, un caso sublimato dall’inchiesta della Procura di Palermo che indaga per corruzione sia l’assessore Elvira Amata che il presidente Gaetano Galvagno (a quest’ultimo è contestato anche il peculato per l’utilizzo spregiudicato dell’auto blu).

Alle opposizioni furenti Schifani avrebbe dovuto ribadire la propria fiducia nei magistrati, ma non senza un accenno alla questione etica che affligge il partito che nel 2022 fu garante della sua elezione. Esporsi in aula avrebbe significato “esporre” Fratelli d’Italia, mettere il partito a nudo, esprimere un giudizio di ferma condanna rispetto a metodi politicamente inopportuni (e, forse, penalmente rilevanti). Schifani non poteva arrivare a tanto. In queste settimane gli si era presentata l’occasione per fare piazza pulita, almeno in via Notarbartolo: ma anche dopo aver scoperto dei legami con Marcella Cannariato e del presunto patto corruttivo per garantire un posto al nipote dell’assessore in una società di brokeraggio, il governatore ha espresso «piena fiducia» nell’operato dell’Amata, esponente di FdI e allieva di Manlio Messina. «Saprà dimostrare la propria correttezza».

Schifani, presentandosi in aula, avrebbe dovuto scegliere se salvare se stesso o Fratelli d’Italia. Non dalle accuse della Procura; ma dalle opposizioni, dal giudizio dei cittadini, dalla facoltà di critica che solo la stampa libera ha scelto di esercitare. Un rischio troppo grosso da assumersi di fronte ai vari patrioti: cioè Giorgia e Arianna Meloni, ma anche La Russa e Donzelli che da lontano osservano le evoluzioni siciliane con enorme fastidio. Lo hanno dimostrato a Manlio Messina, lasciato solo nel momento del bisogno: pare che dal quartier generale di via della Scrofa non abbiano risposto volutamente all’ultimo appello, lanciato via mail, poco prima dell’agenzia in cui il Balilla comunicava la fuoriuscita dal partito (la conferma dell’isolamento è arrivata ieri) e forse l’addio a Montecitorio.

Il presidente della Regione non poteva arrivare a tanto: avrebbe significato sconfessare l’impianto su cui si regge l’impalcatura del governo. Da qui il blocco incondizionato dell’attività parlamentare, le proposte e le ripicche, la corsa folle verso un accordo che – qualora venisse raggiunto – non sarà comunque definitivo né risolutivo. Arriverà qualche provvedimento, magari utile (come nel caso delle liste d’attesa), ma passerà in secondo piano rispetto allo sfacelo inesorabile di una legislatura ormai compromessa.