Tra Musumeci e i partiti che lo sostengono (per quanto ancora?) di problemi ce ne sono una marea. Ma Gianfranco Miccichè, l’alter ego del governatore, continua a manifestarne soprattutto uno: Ruggero Razza. “Si sente un imperatore” è stata la stroncatura del presidente dell’Ars, a Repubblica, ma “deve stare più coi piedi per terra e sentire gli altri. Specialmente in un mestiere che non è il suo, la politica”. Sta proprio qui l’inghippo: oltre a fare l’assessore alla Salute, Razza, avvocato penalista cresciuto nella scuola di Enzo Trantino, è anche il consigliere personale, nonché l’ambasciatore di Nello Musumeci per tutto ciò che concerne l’attività politica e il rapporto (quasi inesistente) coi partiti. E’ il fulcro dell’universo del ‘pizzo magico’, ma non riesce più ad essere il collante di una coalizione a pezzi, dove ognuno è libero di fare, di dire e di votare ciò che vuole.

Il perché è presto detto: nell’attività di cuci e scuci degli ultimi anni, Razza, delegato dal suo ‘capo’, non è più riuscito a smussare gli angoli (caratteriali) del presidente, né di ammorbidire il suo rigorismo, talvolta capriccioso ed esasperato, nei confronti degli alleati. La sensazione che decidesse tutto lui, e che per parlare col governatore fosse necessario transitare da Razza, ha fatto inalberare Miccichè. Fino a farlo esplodere quando, nello scorso ottobre, il presidente dell’Ars recapitò una lettera a Musumeci per chiedere chiarimenti sull’assistenza domiciliare ai disabili, e il governatore, anziché dissipare i suoi dubbi, affidò la risposta al proprio congiunto (politico s’intende). Si arrivò a un passo dalla crisi. Ma ciò che il leader di Forza Italia non ha mai mandato giù è il peccato originale: aver ceduto a Musumeci e a Diventerà Bellissima, dopo la vittoria del 2017, l’assessorato più ghiotto: quello alla Sanità. Ed è stato persino peggio quando gli comunicarono che l’assessore che ci avrebbe messo mano era un giovanotto, in gamba finché si vuole ma “senza voti”.

Ruggero Razza, infatti, è stato nominato dal presidente della Regione senza passare dal giudizio degli elettori. Come Armao d’altronde. O come Manlio Messina, la terza stella del cerchio magico che che tiene a Palazzo d’Orleans lo scettro del potere. Ciò, agli occhi dei rappresentanti degli altri partiti, specie quando gli scontri si acuiscono, è un handicap difficile da colmare. Un fastidioso privilegio. Razza è diventato assessore grazie a Musumeci, mentre Musumeci non è diventato presidente grazie a Razza. Bensì ai 36 parlamentari (eletti) di una maggioranza divenuta più ampia (nei numeri), e che oggi fatica a riconoscersi. Sette-otto deputati, addirittura, si portano dietro il fardello di un giudizio oltraggioso: quello di essere “accattoni” e “scappati di casa”. Mentre, per il fido scudiero, le opportunità non sono mai mancate. E il perdono pure, quando nello scorso marzo è scoppiato lo scandalo sui “morti spalmati” che ha visto l’assessore indagato dalla Procura di Trapani. E mezzo dipartimento alle Attività sanitarie finito gambe all’aria, con un dirigente e un funzionario in arresto, e Musumeci (con limiti evidenti, di tempo e di competenze) costretto all’interim.

Eppure le dimissioni di Razza – immediate – furono accolte dal governatore con parole al miele, nel teatro cupo di Sala d’Ercole che lì per lì avrebbe ripudiato entrambi: “La migliore risposta – esordì Musumeci – l’ha data questo ragazzo, Ruggero Razza, dato in pasto alla folla, quella folla che disse liberate Barabba. Questo ragazzo cresciuto nelle caserme, nell’insegnamento del padre addestrato nell’Arma, formato alla Nunziatella, cresciuto accanto a me e al quale voglio bene come fosse un figlio pur non avendogli risparmiato critiche, sta vivendo giornate difficili”. La stima e l’encomio, però, si sono manifestate con forza dirompente un paio di mesi dopo. Quando Musumeci, sfidando la magistratura, le opposizioni e un pezzo della maggioranza, lo invitò a rientrare in campo e, dopo un timido rifiuto, ci riuscì. Da quel momento Razza sarebbe stato persino più fedele, promettendo un cambio d’atteggiamento: “Ho fatto una promessa di sangue al presidente e a me stesso – disse durante la convention dello Spasimo, il 26 giugno -: mi occuperò solo di amministrazione, ho abbandonato la suggestione della politica, perché mi sento in torto verso me stesso e verso mio figlio”. Macché.

Razza è colui che ha tentato fino allo stremo di portare Diventerà Bellissima fra le braccia di Salvini, nel tentativo di federarsi con la Lega, creando le condizioni per una ricandidatura di Musumeci alla Regione (o, al massimo, per una exit strategy: un posto a Roma). Razza ha saputo cementare – numericamente – la maggioranza di centrodestra, agganciando i grillini “ribelli”, nel cui gruppo milita la moglie-deputata Elena Pagana, e avviando la transumanza verso Attiva Sicilia, che oggi sorregge l’azione dell’esecutivo (senza i quattro voti degli ex grillini, l’altro giorno Musumeci si sarebbe fermato a 25). Voleva prendersi persino l’Udc, utilizzando il gancio della famiglia Genovese, che già aveva fatto confluire nel primo esperimento di ‘stampellismo’: ‘Ora Sicilia’ doveva essere la quarta gamba del centrodestra, ma è stata azzoppata quasi subito. Razza, che nemici e alleati definiscono “u ciù spertu” del cerchio presidenziale, nel delirio dell’altra sera a palazzo dei Normanni, è stato il suggeritore della manovra più sofferta: rassegnare le dimissioni. E Musumeci, che talvolta sfugge ai consigli dell’allievo, s’era quasi convinto, prima della poderosa sterzata e dell’ira vomitata sui social. L’azzeramento della giunta? “Non se ne farà nulla”, confessano i big del centrodestra a microfoni spenti. Anche perché a Razza non piace: è una manovra che sa di debolezza.

Razza serve a Musumeci più di quanto Musumeci serva a Razza. Eppure, nonostante la fiducia sconfinata e l’apprezzamento irriducibile, l’assessore alla Salute in questi mesi di pandemia è finito sotto assedio. Per il rapporto incasinato coi medici di famiglia, ai quali, di recente, ha chiesto il sacrificio di prendere in carico i positivi asintomatici e liberarli dalla quarantena (visto che le Usca non ce la fanno); per i ritardi nella convenzione con le farmacie, rimaste a lungo inoperose nonostante l’esigenza di allargare la platea dei vaccinati; per i prezzi calmierati dei tamponi imposti ai laboratori privati; per la campagna selvaggia di assunzioni e incarichi, giustificata dalla situazione pandemica, ma poco ligia (il Pd ha presentato interrogazioni e istanze di accesso agli atti) ai criteri della trasparenza; per le ambulanze in fila davanti all’ospedale Cervello di Palermo e per lo ‘sfratto’ dei pazienti extra Covid dai reparti riconvertiti; per l’incapacità di potenziare la rete ospedaliera – erano stati promessi 571 posti letto – evitando il collasso delle strutture già stremate; per aver ‘convocato’ le truppe cammellate, composte in prevalenza dai dirigenti delle ASP, alle convention politiche.

Agire da padrone indisturbato della sanità siciliana, ostruire (ai partiti) l’accesso al sottogoverno delle nomine, trattare con sufficienza associazioni e categorie, blindare se stesso con la corazza del presidente – che tutto vede e tutto giustifica – ha indebolito Razza e, di conseguenza, pure Musumeci. Prima che la prossima legislatura cominci, e ammesso che il governatore rimanga lo stesso, una cosa è certa: sarà una guerra all’ultimo sangue per garantirsi l’assessorato alla Salute. Un centro di potere senza eguali, che l’ultima gestione spregiudicata ha reso persino più ambito.