Il tempo è un’entità indefinita per Rori Quattrocchi. Ironia della sorte, una delle ultime scene in cui la si è vista recitare in tv, su Rai1, è stata quella di un compleanno: lei, Ninetta, la nonna di Salvatore Giommarresi, il ragazzino protagonista de “La mafia uccide solo d’estate”, la fiction di Pif, che soffia sulle candeline. “Non mi chiedete niente: so soltanto che ho vissuto prima d’oggi”, dice sempre. Incontri, amori, debutti: niente. La mano sottile, come tutta sottile è lei, gira come una lenta centrifuga mentre racconta ma non acchiappa nessuna data certa. Non è vezzo muliebre perché li dichiara tutti, invece, i suoi 75 anni, se lo ricorda perfettamente il 1993, inizio della pensione, fine di una prigionia che per tre decenni ha scisso la sua vita in due, l’attrice e l’impiegata della pubblica amministrazione, ma che “mi ha consentito di campare”. C’è una cosa che però segna la sua vita ed è il senso dell’abbandono: patito e poi inflitto, ma senza coscienza di colpa.

Andiamo con ordine. Rori (all’anagrafe Aurora, secondo nome Primavera) nasce a Mattuglie, in Istria. E’ il ’43 e il padre è militare di carriera. Dopo la guerra la famiglia (c’è anche una sorella più piccola, Erminia, detta Riri, Rori e Riri, pensate un po’), si trasferisce a Spoleto. E qui il dramma, il primo abbandono. La mamma, maestra, muore (“una cisti, una banalissima cisti, tolta da un medico nel letto di casa”) e lascia due bimbe piccole. Accorrono nonni e zii da Palermo – di cui i Quattrocchi sono originari – e portano le due orfane in Sicilia. “Ho realizzato anni dopo, verso i 12, che mia madre era morta. ‘Insegna in un’altra città, lontano da qui’, raccontavano a me e a mia sorella. Mi ha segnato quel distacco improvviso, senza spiegazioni. Mi ricordo negli anni più avanti, quand’ero ragazza e mi capitava qualche fidanzatino, me ne trovavo contemporaneamente uno di riserva. Ero sincera però, gli dicevo ‘Vincenzo, perdonami, ma se Roberto dovesse lasciarmi…’”. E comunque Rori va a scuola, si diploma alle magistrali, vuole fare psicologia a Roma. E ci si iscrive anche. Ma è a Palermo il suo destino perché quella casa di via Costantino Nigra dove vive è vicina all’epicentro dei nuovi fermenti teatrali, ogni giorno incrocia per strada gli sguardi di Li Bassi, Scaldati, Drago, Pupella, Fontana, Licata, Marsala, Burruano. Ogni tanto, nel pomeriggio, si rifugia in quegli scantinati. Finché un giorno è naturale che le chiedano ‘perché non provi?’. E lei prova anche se non è che bruci di questo gran “fuoco sacro”. “A me più che recitare è sempre piaciuto cantare, saranno i cromosomi perché mio nonno paterno era compositore e direttore d’orchestra… Se infatti dovessi scegliere uno spettacolo nel quale mi sentivo realizzata al massimo, direi ‘Soirée’ di Salvo Licata, perché cantavo e cantavo… Un’altra volta, con Claudio Collovà regista, dovevo dire dei versi tragici ma non venivano mai fuori come gli sarebbero piaciuti. Allora gli ho proposto: ‘E se li cantassi?’. Mi guardò come si guarda una matta. Provai. ‘Perfetto, va bene così’”.

In ogni caso, Rori debutta nel ’74 in “Attore con la o chiusa” di Scaldati ai Travaglini. Successo. Ma lei lo prende come un gioco e sta con i piedi ben piantati per terra e si costruisce una vita da signora borghese. Si sposa. Cerca e trova un lavoro. Ma non dura molto, il matrimonio. Dura di più, 29 anni, lo stipendio fisso. “Gigi Burruano era molto amico di mio marito e di riflesso anche mio. In uno dei suoi momenti di nomadismo, venne a vivere a casa nostra. Si piazzò da noi. Per un anno. Non era sempre facilissima la convivenza ma per amore di Renato, mio marito, e per la complicità che s’era comunque instaurata, si andava avanti. Fino a che non ne potei più e cacciai Burruano via di casa. Gran dispiacere da parte di tutti. Ma nessun passo indietro. Per un anno non ci sentiamo nemmeno ma una sera mentre sono con Renato ed altri amici a Villa Boscogrande, Gigi si avvicina al nostro tavolo, lo facciamo sedere, chiacchieriamo e a un certo punto lui fa a mio marito: ‘Renato, perdonami, mi permetti di corteggiare qualche minuto tua moglie?”. So solo che a fine serata, io vado via con Burruano e lascio tornare da solo mio marito nella nostra bella casa da sposini in via Principe di Paternò. Lascio Renato e lascio mio figlio Attilio. Aveva quattro mesi”. Torna il refrain dell’abbandono ma nessun rimpianto, nessun rimorso.

Con Burruano sono montagne russe per 12 anni con in mezzo una figlia, Gelsomina. “Personalità inquiete, entrambi. Una volta andavo via io, quella dopo buttavo fuori lui. 24 ore ed era tutto passato. Dodici anni ‘a làssa e pìgghia’”. Gelosi entrambi. Ne “La coltellata” (1976) c’era un momento in cui Rori restava nuda, in proscenio. Pochi secondi. Gigi che faceva la parte di un regista ordinava subito il buio. Una sera, dal pubblico, si levò un commento: “Minchia, pari ’na parrucca”, disse uno spettatore i cui occhi s’erano puntati sul pube dell’attrice. Gigi ordinò il buio e, guadagnata la quinta, tentò di arrivare in platea. Lo trattennero a stento. Nervosetta fu anche la reazione quando gli “amici” del “L’Ora” pubblicarono la foto di quel nudo (che aveva comunque fatto scalpore) sul giornale del pomeriggio.

Ma di teatro si campava male. “Quando cercai un lavoro, me ne dissero di tutte. Sei una borghese, hai una mentalità da signora perbene. C’era un concorso al Comune: dattilografa aggiunta. Lo vinsi. Impiegata della pubblica amministrazione coscienziosa ma ad ambizione zero. Ero bravissima con la macchina da scrivere ma ogni volta che mi proponevano una promozione cortesemente rifiutavo, ‘grazie, sto bene dove sono’. Quando capii, nel ’93, che stava cambiando la famosa regola dei ‘19 anni, 6 mesi e 1 giorno’, alla soglia dei trent’anni di servizio, andai dal capoufficio e gli dissi ‘domani le porto la domanda di pensione’”.

Da quel giorno Rori fa solo l’attrice, passa dal cinema al teatro, alla tv, dai red carpet dei festival alle conferenze stampa, dice che forse lo ha capito proprio allora che il gioco valeva la pena d’essere giocato fino in fondo. “Il pubblico che ti applaude, i critici che scrivono bene di te, i registi che ti cercano… mi sono chiesta ‘vuoi vedere che ci so fare davvero?’. E’ che io ho sempre vissuto come un pesce – sono Pesci anche come segno zodiacale – ho nuotato o a pelo d’acqua o negli abissi, mai nel mezzo. E ricevo sempre tutto come un regalo, dico sempre che la vita è troppo, troppo tutto”. Come quando la chiamò John Turturro per mettere in scena le “Fiabe italiane” di Calvino, prove e debutto a New York e poi grande tournée italiana. “Ma è sicura che mister Turturro vuole proprio me?”, chiese più volte alla segretaria dell’attore e regista americano. “Alla prima prova – confessa adesso – in un teatro di Brooklyn, volevo chiederlo anche a lui: ma è sicuro che voleva proprio me? Poi mi dissi: e se magari si è sbagliato davvero? Lasciamo stare, va’, lasciatemi aprire anche questo regalo”.