Totò Cuffaro non è più al suo fianco. Anzi, all’indomani della richiesta di misura cautelare da parte della Procura di Palermo, Schifani l’ha messo fuori dalla porta, revocando due assessori in quota DC. Ora al presidente rimane un solo corazziere di fiducia: cioè Luca Sammartino, riammesso in giunta nonostante l’inchiesta per corruzione che gli toccherà un processo. Il leghista gode di un trattamento particolare: a) perché non farebbe parte di un sistema-partito che inficia la condotta morale del governo regionale (parola di Schifani); b) perché è l’unico alleato davvero fedele.
Così fedele da aver conservato il posto anche durante il periodo di interdizione dai pubblici uffici (tramite Salvatore Barbagallo, già suo capo di gabinetto), che gli era stato comminato dal Tribunale del Riesame. Al termine di 17 mesi da “spettatore” è tornato in sella più forte di prima. Siglando l’asse (col povero Cuffaro) che avrebbe permesso al presidente della Regione di tenersi a galla nonostante i numerosi tentativi di rovesciarlo col voto segreto. Sammartino c’è sempre stato, e c’è anche adesso: gravato della delega ai rapporti col parlamento – non esattamente il punto forte di Schifani – s’è dimostrato tenero e addomesticabile anche nei giorni della crisi con Salvini: il ministro e capo della Lega aveva nominato Annalisa Tardino alla guida dell’Autorità portuale, Schifani – sentendosi scavalcato – iniziò a fare i capricci come i bambini dell’asilo, rivolgendosi al Tar e chiedendo la sospensiva del provvedimento. Quest’ultima prerogativa è stata ritirata, ma il tribunale amministrativo dovrà comunque esprimersi il prossimo gennaio.
Sammartino arrivò a non prendere posizione neppure in quell’occasione, quando schierarsi al fianco del segretario della Lega e vicepremier sembrava la più logica delle soluzioni. Ma in Sicilia la logica è evaporata da tempo: che logica c’è, ad esempio, nell’emarginazione del proprio partito per affidare due assessorati chiave a degli assessori “tecnici”? Stiamo parlando di Forza Italia, che da mesi subodora una guerra aperta nei confronti di Schifani e di Caruso e pure non riesce a raddrizzare la barra delle responsabilità: il più nutrito gruppo parlamentare all’Ars rimane con un solo assessore (contro i 4 di Fratelli d’Italia). Nel day after più critico, gli azzurri non si capisce bene che ruolo giocheranno: potrebbero fare qualche schiribizzo nelle ore della manovra finanziaria, niente più.
Finito nella polvere Cuffaro, a Schifani rimane lo scudo dei suoi deputati. Che nonostante l’irragionevole provvedimento assunto nei confronti degli assessori Messina e Albano, hanno comunque giurato fedeltà (ieri durante un summit) al governatore: i sette voti all’Ars non mancheranno. Cosa diversa per gli Autonomisti di Lombardo: il loro leader ha promesso di non partecipare più ai vertici di maggioranza (quello di ieri, a cui aveva deciso di non mandare neppure i suoi uomini, è stato comunque rinviato). L’apporto del Mpa si vedrà in aula, semmai dovesse esserci. Ma la decisione del passo di lato sembra fare il paio con la richiesta – inevasa – di azzerare la giunta.
Diciamolo con franchezza: nell’arco di questa legislatura Schifani non ha mai accontentato Lombardo su niente. Né sulla selezione dei manager della sanità (il leader autonomista chiedeva di pescare tra tutti gli idonei e non soltanto fra i ‘maggiormente idonei’); tanto meno sul riconoscimento di un peso maggiore in giunta (specie dopo l’aiutone garantito alle Europee, quando Caterina Chinnici venne eletta sì per la rinuncia di Tamajo ma anche e soprattutto per i voti conquistati dal Mpa). Lombardo, che a livello nazionale s’è federato con Forza Italia, ha sempre esternato un clamoroso fastidio per gli onori riservati alla coppia Cuffaro-Sammartino; e s’è risentito non poco quando Schifani era sul punto di sfilare al fidato Di Mauro la delega all’Energia (fu Salvini, al tempo federato degli Autonomisti, a sventare il pericolo). I precedenti sono troppi per ricostituire un rapporto basato sulla fiducia reciproca.
Fiducia che non appartiene neppure ai Fratelli d’Italia. Quello di Meloni è un partito dilaniato da una lunga e spossante guerra fra la corrente di Ignazio La Russa e quella di Nello Musumeci; e orfano del “polso” di Manlio Messina, che in qualità di battitore libero ha infilzato Schifani più di quanto non abbia fatto l’opposizione di palazzo. Ecco: FdI non ha ancora deciso cosa fare da grande. L’allontanamento di Cuffaro dalla giunta, se per un verso agevola il dialogo col presidente della Regione, dall’altro ha rallentato l’esito di alcune vertenze: in primis il cambio di guardia al dipartimento della Pianificazione strategica (Sbardella ha chiesto la testa di Iacolino). Un atto che i patrioti considerano necessario per ricostituire il rapporto – parlare di fiducia sarebbe un’esagerazione – venuta meno alcune settimane fa, quando i meloniani travestiti da franchi tiratori impallinarono un terzo della manovra-quater.
Alla luce di tutto questo, e in attesa di riconsegnare la parola agli elettori, Schifani avrà un bel po’ da sbracciarsi per portare a casa la legislatura. Apparentemente non potrà contare neppure sul supporto di Cateno De Luca, che ieri si è espresso a favore di un ritorno alle urne. Dovrà fare da solo: ma le sue spalle non sono più coperte come prima e le dannazioni sono dietro l’angolo. Qualcuno gli chiederà più mance in Finanziaria, qualcun altro un cambio ai vertici delle partecipate o delle Azienda sanitarie in mano alla DC; qualcun altro pretenderà un assessorato non appena il presidente “tuttofare” si sarà stancato di fare tutto. Nessuno vorrebbe essere Renato. Ma lui, nel suo solito delirio di onnipotenza e disperazione, tira dritto e trascina a fondo. Scegliete voi cos’è peggio.

