In Sicilia le leggi si fanno, ma poi si dimenticano nei cassetti. È il paradosso di una Regione dove il tempo dell’azione è sempre rimandato, e dove persino il presidente, Renato Schifani, è costretto – almeno a parole – a sbattere i pugni. Con una nota dai toni solenni, ieri, ha rivolto un “forte richiamo” ai suoi stessi assessori affinché intervengano subito contro “l’inaccettabile ritardo” che di frequente si registra “nell’adozione dei provvedimenti attuativi delle leggi”. Una circostanza che è causa di “nocumento per i cittadini e, in molti casi, rallenta l’efficacia delle norme per lo sviluppo e l’economia” della Sicilia.
Per queste ragioni, Schifani ha invitato tutte le strutture regionali ad attenersi al “rigoroso rispetto dei termini previsti”, operando quando possibile “anche con anticipo” e, in mancanza di scadenze esplicite, “a considerare un termine massimo di trenta giorni”. In caso contrario, “si procederà con lo strumento dell’avocazione”. Parole nette, da presidente che promette rigore. Ma l’effetto è quello di un boomerang.
Se c’è un settore dove i ritardi sono la regola e non l’eccezione, quello è proprio la sanità. E le contraddizioni si misurano coi numeri: decreti mancati, milioni persi, nomine bloccate. A partire dai 15 milioni stanziati dall’Ars il 4 giugno, con l’approvazione delle variazioni di bilancio (la cosiddetta manovra-bis, dal valore complessivo di 50 milioni) per fronteggiare il nuovo nomenclatore tariffario: dieci milioni per l’assistenza specialistica, cinque per la riabilitazione. A oggi nessuno li ha visti.
Da gennaio la regia della sanità siciliana è passata a Daniela Faraoni, ex direttore generale dell’Asp di Palermo, promossa in assessorato su indicazione di Schifani e Sammartino. Una nomina-lampo, nella notte successiva alle dimissioni della Volo. Da allora, l’Azienda sanitaria più importante dell’Isola è rimasta senza una guida stabile, affidata provvisoriamente al direttore sanitario Antonino Levita. Sei mesi di vuoto dirigenziale in una piazza cruciale. Un’assenza che il presidente – stretto nella morsa dei patrioti, che reclamano (quanto meno) la poltrona del dipartimento Pianificazione strategica – non riesce a colmare.
E mentre la burocrazia langue, i disastri si moltiplicano. Al Civico di Palermo, guidato da Walter Messina sono andati in fumo 22 milioni di euro per una pec inviata in ritardo. Cinque progetti dichiarati irricevibili. Addio rianimazione nuova, addio sale parto, addio digitalizzazione. Messina era già stato “silurato” due volte dal Villa Sofia-Cervello per incapacità di spesa. Ma questo governo lo ha riportato al vertice. Il suo arrivo al Civico, dapprima nelle vesti di commissario poi di direttore generale, è coinciso con il demansionamento della dottoressa Desirée Farinella, colpevole – secondo i vertici aziendali – delle segnalazioni di una madre sul reparto di Nefrologia pediatrica. Peccato che le ispezioni del Dasoe abbiano escluso responsabilità personali. Ma qualcuno doveva pagare. E così è toccato a lei. Con tanto di contorno giudiziario: il deputato forzista Gaspare Vitrano, secondo la Procura, avrebbe suggerito alla dottoressa di prendersi una “malattia strategica”. Una pressione indebita che oggi è al centro di un’indagine per tentata violenza privata.
A Trapani il finale è stato diverso, ma solo nella forma. Il direttore generale Ferdinando Croce, sospeso per lo scandalo dei referti istologici, ha deciso di dimettersi prima di essere formalmente rimosso. Ha provato a difendersi rivendicando alcuni risultati ottenuti durante la sua gestione – tra cui l’ottenimento di 60 milioni di fondi europei, l’avvio della gara per la radioterapia e una buona performance sulle liste d’attesa – ma non è bastato a farla franca. A suo dire, le responsabilità andrebbero ricercate in criticità pregresse e in dinamiche già note all’interno dell’Asp, come segnalato dalla relazione ministeriale e dalla stessa Procura. Ha scelto di andare via al termine di un tira e molla infinito, e di una sospensione di 60 giorni. Ma anche qui la regia è mancata. L’assessorato ha temporeggiato, la politica ha esitato, e alla fine si è scelto il capro espiatorio più comodo.
Sul tavolo resta la riforma della rete ospedaliera, giunta alla sua terza versione. L’ultima bozza ha sollevato un polverone in tutte le province, a partire dal Catanese, dove numerosi sindaci – incluso il forzista Firrarello – hanno letto nel rafforzamento dell’ospedale di Paternò (da 28 a 63 posti letto) un evidente inchino alla supremazia politica di Fratelli d’Italia. Le opposizioni, dal canto loro, hanno denunciato l’assenza di criteri oggettivi e trasparenti, accusando il governo di aver costruito la mappa dei posti letto sulla base di convenienze elettorali e non di bisogni sanitari reali. Serve un altro passaggio in commissione Salute, prima di “esportare” la questione al Ministero. “Stiamo lavorando con attenzione”, assicura Faraoni. Che ieri ha ricevuto un contentino dalla Conferenza permanente per la programmazione sanitaria: “Strutture come le case di comunità possono facilitare, nel perimetro delle funzioni per le quali sono state pensate, l’accesso alle cure e, allo stesso tempo, ottimizzare le attività dei pronto soccorso evitando il ricorso a questi presidi quando è possibile soddisfare i bisogni a livello territoriale”. Conclusioni, forse, un po’ generiche.
E come se non bastasse, nel silenzio generale, l’assessora ha firmato il decreto che riorganizza la rete di cure palliative in Sicilia. Un tema delicatissimo, trattato con la freddezza della ragioneria. Il nuovo testo, datato 27 giugno, apre il mercato delle cure ai soggetti profit, demolendo un modello basato – fino a oggi – sul no-profit, sul volontariato, sull’empatia. Fino ad ora, ad assistere i malati terminali erano ONLUS, associazioni, enti morali. Con il nuovo impianto, dovranno competere con le cliniche private. “Concorrenza”, dice il decreto. Ma in questo settore, la concorrenza è un ossimoro. Le realtà del terzo settore, che per anni hanno garantito assistenza senza profitto e senza liste d’attesa, rischiano di soccombere sotto il peso di un mercato che non dovrebbe esistere. Le dichiarazioni della CEI, il monito dei vescovi siciliani, l’appello di Mattarella: tutti ignorati. A prevalere è una logica aziendalista che considera la sofferenza un servizio da mettere a bando. La cura come business.
Alla fine, si rischia quasi di rimpiangere persino Giovanna Volo. Era un assessore di cartone, certo, ma almeno non ha lasciato cicatrici definitive. Daniela Faraoni, al contrario, è arrivata con l’ambizione di rimettere ordine, ma finora ha contribuito più a complicare che a risolvere.