Negli ultimi tre anni la sanità siciliana è diventata il terreno più instabile di un governo ingovernabile. E non soltanto per la fragilità strutturale del sistema, che precede di molto l’attuale legislatura, ma per le scelte politiche compiute in due passaggi decisivi: la nomina di due assessori tecnici, Giovanna Volo e Daniela Faraoni, che avrebbero dovuto rappresentare la svolta della competenza, della neutralità e dell’efficienza. Invece hanno prodotto un risultato opposto, contribuendo a un quadro di incertezza che oggi si riflette sulle aziende sanitarie, sull’erogazione dei servizi, sui rapporti con i convenzionati e sulla credibilità dell’intero impianto di governance.
La parabola di Giovanna Volo è paradigmatica. Arrivata all’assessorato senza un radicamento politico e senza una squadra amministrativa costruita intorno a lei, si è trovata immediatamente a fronteggiare uno dei momenti più delicati della sanità regionale: il blocco delle prestazioni dei privati accreditati per via delle previsioni di budget al ribasso, il sovraffollamento dei pronto soccorso, la carenza strutturale di medici e infermieri. In questo contesto, la Volo ha conosciuto in tempi rapidissimi la durezza del confronto parlamentare: l’episodio delle interrogazioni saltate per “impreparazione” — con Sala d’Ercole costretta a rinviare la seduta — è diventato l’emblema di un assessorato lasciato senza cuscinetti politici, senza raccordo con gli uffici, costretto a inseguire emergenze quotidiane con strumenti spuntati.
Il tema dei precari Covid, arrivati all’ennesima scadenza senza una linea chiara, ha ulteriormente esposto la fragilità dell’assessora, finita sotto attacco non solo dell’opposizione ma anche dei gruppi di maggioranza. Allo stesso modo, il conflitto con i privati convenzionati sui budget, generato dalla riduzione dei tetti di spesa per ambulatori e laboratori, ha prodotto una serrata di tre giorni (era il mese di febbraio del ’23) e un irrigidimento del sistema che la Volo non ha avuto la forza di gestire. Il tentativo di potenziare i laboratori pubblici con prestazioni aggiuntive — molto più costose per la Regione — ha finito per alimentare sospetti e ulteriore caos, senza produrre un risultato apprezzabile.
Quando l’assessora è uscita di scena, al suo posto è arrivata Daniela Faraoni, dirigente di lungo corso, con un profilo amministrativo solido ma con un evidente intreccio pregresso tra politica e sanità. Da lei ci si aspettava un cambio di passo, quantomeno sul piano del metodo. Invece, la sua gestione ha prodotto un altro cortocircuito: il budget 2025 è stato assegnato con un ritardo copioso, appena qualche giorno fa. Il risultato è che l’intero sistema dei convenzionati si è ritrovato, ancora una volta, a lavorare sulla base dei tetti dell’anno precedente, sforando il numero delle prestazioni rimborsabili. Il culmine è stato l’episodio dell’ultimo mancato incontro con i rappresentanti delle strutture accreditate, lasciato integralmente al capo di gabinetto Sgroi (insieme a Sammartano, capo di gabinetto di Schifani): una scelta vissuta dagli interlocutori come un segnale di distanza, quasi di indisponibilità al confronto, in un momento in cui invece servivano autorevolezza e presenza.
Intorno a queste figure, il resto del sistema non ha funzionato meglio. L’Asp di Palermo, la più grande dell’Isola, è senza direttore generale da quasi un anno: da quando la Faraoni è stata nominata assessora, la casella è rimasta congelata tra veti politici, trattative di coalizione, ripensamenti e incastri di potere. La nomina di Alberto Firenze, approvata dalla Commissione Affari istituzionali il 4 novembre, è stata bloccata dalla giunta per ragioni che nulla hanno a che vedere con il merito: Schifani non vuole rompere equilibri interni alla maggioranza in piena trattativa sulla Finanziaria. È la dimostrazione plastica che il problema non è mai stato il metodo delle nomine, ma il loro utilizzo politico.
Il blocco delle nomine produce effetti a catena: il domino riguarda anche i Policlinici di Messina e Catania, dove le scelte sono state rallentate dai contrasti interni alla coalizione. Il tutto mentre il governo annuncia con enfasi la nascita dell’Alta Commissione per la selezione dei manager, un organismo descritto come garante di trasparenza e competenza, ma che nella sostanza ripropone un modello già previsto dalle norme nazionali e mai reso realmente operativo. Una commissione i cui tre membri saranno scelti dal presidente della Regione, dall’Agenas e dalla Conferenza dei rettori, ma che non elimina il punto centrale: l’ultima parola sulle nomine resta, come sempre, al governo.
Non è un dettaglio. Perché negli ultimi anni la Procura di Palermo ha documentato come il manuale di spartizione degli incarichi nella sanità — il caso Cuffaro insegna — continui a essere un elemento strutturale del sistema. E i fatti recenti non smentiscono questa lettura: le nomine approvate dalla commissione parlamentare restano ferme in giunta, mentre gli equilibri interni ai partiti incidono più della qualità dei candidati.
In questo scenario, la fotografia più impietosa arriva dai dati dell’Agenas: 43 strutture siciliane classificate come di basso livello, tassi di mortalità oltre soglia negli interventi cardiaci, ricorso ai tagli cesarei fuori controllo, enorme variabilità territoriale nelle performance. Indicatori che confermano una sofferenza strutturale e la difficoltà a garantire standard omogenei di qualità. Il bilancio complessivo, dopo tre anni, è chiaro: la scelta dei tecnici non ha portato alla stabilità sperata. Né la Volo, travolta da un sistema più grande di lei, né la Faraoni, schiacciata da ambiguità politiche (è più fedele a Schifani o alla Lega di Sammartino?) e contraddizioni amministrative, hanno saputo imprimere un cambio di passo.
Al contrario, la loro gestione ha mostrato come, senza una strategia politica forte e senza un’amministrazione in grado di supportare davvero l’azione di governo, anche i profili tecnici finiscono per diventare figure deboli, isolati o inefficaci. E mentre la Regione discute ancora di commissioni, terne e procedure, il sistema sanitario resta alle prese con problemi molto più concreti: aziende senza guida, servizi che arrancano, personale insufficiente, liste d’attesa interminabili e una percezione pubblica sempre più sfiduciata. Il nodo non è il metodo delle nomine, è l’assenza di una direzione chiara e la persistenza di logiche che continuano a mettere la politica davanti ai bisogni del sistema.


