La gelatina del centrodestra è un po’ molliccia. Più del solito. Il clamoroso tonfo all’Ars sul rinvio delle elezioni nelle ex province, in cui la compagine di governo si è presentata divisa più che mai – l’Udc ha firmato la risoluzione, Forza Italia e Diventerà Bellissima non sono riuscite ad annacquarla – è il sintomo del malessere. Nulla di nuovo in realtà. Va avanti da un anno e mezzo. Musumeci che lancia strali – una volta contro i burocrati, quella dopo contro il voto segreto, e via discorrendo – non è ancora riuscito a trovare la compattezza e i numeri. La garanzia di una maggioranza che viaggi in direzione univoca e consenta al governo, lento e impacciato, di fare quelle poche cose che ci si attende possa fare da qui a fine legislatura.

Le Europee, inoltre, hanno rivelato una nuova geografia dell’elettorato siciliano, almeno di quel marginale 40% che si è recato alle urne. E ha risvegliato dal torpore il presidente della Regione, che alla vigilia del voto si era defilato. Aveva deciso di assistere, da spettatore interessato, ai giochini e ai litigi della propria coalizione. Aveva fatto gli auguri a tutti i partiti della coalizione, persino quelli di facciata a Raffaele Stancanelli, che si era autosospeso dal suo movimento per andare in braccio alla Meloni (ottenendo un seggio in Parlamento), e si era accomodato in poltrona, col sigaro in bocca, ad attendere i risultati. Covando, per l’indomani, l’ennesima proposta rivoluzionaria: ma se facessimo un partito nuovo? Non s’è ancora capito come: se con Toti, e quindi di caratura nazionale; se con Micciché, e quindi di carattere locale. Musumeci, però, non aveva ancora fatto i conti con gli umori degli “sconfitti” e le pretese dei “vincitori” dell’ultima competizione elettorale.

Il puzzle che va componendosi in queste ore è talmente articolato, che rischia di far desistere il governatore dalle buone (o furbe) intenzioni. E anziché abbandonarsi a una stagione lunga e complessa di trattative, in cui servirebbe dapprima sanare le divergenze, e poi spingere verso la costituzione di un “polo” nuovo, Musumeci sembra aver scelto, assieme ai suoi colonnelli, la via più facile, per certi versi già collaudata da altri in passato: una federazione con un partito nazionale. La Lega. Il feeling con Salvini è buono, ottimo. E il Carroccio non ha intenzione, non in questa fase, di fare pressioni al governatore per ottenere una presenza in giunta (l’ha detto il commissario Candiani che fornirà soltanto un “appoggio esterno”). L’interlocutore è credibile – d’altronde, come fai a barattare l’unico deputato all’Ars? – e il suo parco-voti ghiotto.

Scendere a patti con la Lega è un modo per contare di più a livello nazionale, avere agevolazioni per l’esecutivo, e non guastare il palato ai seguaci della prima ora. Quelli che Musumeci lo seguivano sotto l’insegna della Fiamma e che non hanno mai rinunciato ai valori della destra. Meno aizzati e spinti di un tempo, va da sé: perché non esiste spazio a destra di Salvini – parola di Nello – bensì alla sua sinistra. In Sicilia il partito di Musumeci, che cambierebbe anche nome, potrebbe legarsi a doppio filo al Carroccio e, allo stesso tempo, ospitare quanti sul Carroccio non vogliono salire. La chiave di volta è la federazione. In questo modo Musumeci sarebbe al riparo dall’eventuale guerrilla che rischia di esplodere al centro e che lui, uomo di governo impegnato a risolvere i problemi dei siciliani, non avrebbe la forza né la voglia di sostenere. Inoltre, si metterebbe in una posizione di vantaggio qualora, magari fra qualche mese, dovesse decidere di candidarsi ancora a palazzo d’Orleans.

La pia illusione di creare un nuovo polo moderato, insomma, passa dalle ambizioni di Gianfranco Miccichè e dei centristi “puri”. Capeggiati, in questa fase storica, da due movimenti su tutti: il Cantiere Popolare di Saverio Romano e gli Autonomisti di Raffaele Lombardo. Usciti sconfitti dalle ultime elezioni. Al di là del risultato di Forza Italia, che Micciché è riuscito a spingere al 17%, oltre il doppio del dato nazionale, e che adesso gli permette di reclamare più spazio all’interno del comitato di presidenza, una considerazione va fatta. Che i “partituzzi” di questa Grosse Koalition, al 17%, valgono meno dei sovranisti: Lega e Fratelli d’Italia, insieme, sono al 28%. La consapevolezza che il bottino – i posti in giunta, dopo i seggi a Bruxelles – si riduca, ha già fatto scattare le contestazioni. Saverio Romano ha denunciato una crociata di partito contro di lui e spiegato a Miccichè che non ha nulla da festeggiare. E, complice un risultato sotto le aspettative nel Palermitano, ha punzecchiato i suoi fedelissimi (tra Cordaro e Lagalla, uno è a rischio assessorato). E che dire di Giovanni La Via? La sua mancata candidatura aveva fatto deflagrare Forza Italia già prima delle elezioni. Così l’agronomo catanese, che non poteva permettersi un nuovo cambio di rotta (era freschissimo di rientro dall’Ncd), in campagna elettorale ha scelto di “ripiegare” su Romano. Oltre agli elogi – d’obbligo – a Berlusconi, l’ex eurodeputato ha segnalato che “il risultato è certamente stato reso possibile dall’impegno di tutti, in primo luogo dei candidati, e dal contributo arrivato da tutte le anime del partito, unite dall’obiettivo comune di presentare agli elettori un’alternativa responsabile e moderata”.

Nel ventre molle del centrodestra, che attende di conoscere le mosse di Lombardo, ci sarebbe anche l’Udc (Figuccia fa la guerra a Miccichè, mentre Cesa si accorda con lui), Sicilia Futura, che ha detto addio al Pd-senza-Renzi, e Cateno De Luca, che già sgomita per essere il prossimo candidato alla presidenza della Regione. Hanno preso le distanze, invece, gli ex forzisti catanesi. Che dopo aver lasciato Miccichè e rilanciato “Muovitalia”, un contenitore di carattere locale, si sono arrogati il merito di aver fatto eleggere addirittura tre deputati, rafforzando – anch’essi – il feeling con Salvini e con la destra: “I risultati elettorali confermano la tendenza maggioritaria del centrodestra, nel nostro Paese e in Sicilia – ha detto Pogliese, il sindaco di Catania – Vincente si è rivelata la nostra scelta di rispettare le sensibilità dei nostri amministratori e simpatizzanti a sostenere le candidature di Annalisa Tardino e Francesca Donato per la Lega e di Raffaele Stancanelli in Fratelli d’Italia. Anche grazie all’impegno serio e leale, com’è nel nostro dna, dei tanti che si sono scommessi, senza sotterfugi e alla luce del sole, tutti e tre rappresenteranno la Sicilia e Catania a Bruxelles”.

Nel centrodestra dalle mille facce, in attesa di un rimpasto e di un partito che chissà se nascerà, si aggira anche uno zombie. E’ il vicepresidente della Regione Gaetano Armao, che per commentare il risultato di domenica scorsa si è limitato a un “bravo” nei confronti di Silvio Berlusconi, e nemmeno una parola verso Salvatore Cicu, il candidato sardo che si era premunito di appoggiare in sfregio al resto del partito siciliano e del suo coordinatore regionale. Che, infatti, lo aveva già ribattezzato “ex assessore”. Armao non ha santi in paradiso, che ha già sfamato tutti i suoi bluff, a cominciare dal fantomatico partito degli indignati, e rischia di essere tagliato fuori dal nuovo esecutivo. Certamente è uno degli indiziati per rimpolpare la “cosa nera” di Musumeci – definizione di Antonio Fraschilla su Repubblica – che all’Ars potrebbe tirar dentro, nel nuovo gruppo di cui farebbero parte i deputati di Diventerà Bellissima, anche Luigi Genovese, figlio del ras messinese condannato a 11 anni di carcere per lo scandalo della Formazione, e Rizzotto (l’unico leghista dell’assemblea). Per rinsaldare i rapporti con Salvini, tenersi stretta la Meloni e spingere in un angolo, ancor prima che veda la luce, il “polo moderato” di Miccichè & co. Sembrano discorsi da fantapolitica, ma i telefoni, da domenica scorsa, si sono già arroventati.