Le opposizioni sono davanti a un bivio: resistere alla tentazione o cedere alle lusinghe dell’albero della Cuccagna. La mozione di sfiducia contro Schifani, annunciata come lo strumento per mettere fine a un governo che considerano logoro, inefficiente e impantanato nel caso Cuffaro, è lì, pronta sulla carta. Ma per funzionare dovrebbe resistere alla “mela del peccato”, parafrasando un’espressione abusata da Cateno De Luca: cioè la distribuzione dei piccioli della Finanziaria, che in Aula può trasformare anche la più solida indignazione in un soffice accomodamento.

Il tema è tutto qui: cosa faranno le opposizioni quando la manovra arriverà a Sala d’Ercole? Rinunceranno agli emendamenti, ai contributi territoriali, alle migliorie da intestarsi nei propri collegi, pur di portare avanti la battaglia contro il “cuffarismo” dilagante? Oppure, come già accaduto in passato, la protesta perderà consistenza non appena inizieranno a circolare le cifre degli stanziamenti, le promesse sugli sconti, le misure “per i giovani”, “per le imprese”, “per i territori”?

Quella delle mance è una tentazione quotidiana, resa ancora più forte dal fatto che fino a ieri gli stessi gruppi d’opposizione non avevano neppure raccolto tutte le firme necessarie per depositare la mozione. E anche qualora dovesse arrivare in Aula, ed essere calendarizzata prima dell’avvio della sessione di bilancio, non cambierebbe la matematica: per mandare a casa Schifani servono 36 voti. Inimmaginabili, in un Parlamento dove gli equilibri personali valgono più delle coalizioni e dove l’idea di un ribaltone, almeno oggi, non ha sponsor reali (tranne La Vardera, forse).

Allora la partita si sposta sul terreno più insidioso: la prova dell’Aula, un palcoscenico che in questi due anni ha regalato al governo più di una brutta sorpresa. Qui non bastano le dichiarazioni d’intenti: qui si vota davvero, spesso segretamente. Sala d’Ercole è il luogo dove sono caduti articoli di legge dati per sicuri, dove la maggioranza si è spaccata più volte, dove i malumori diventano voti contrari e i franchi tiratori trovano sempre un modo per manifestarsi.

In mezzo a questo scenario, Schifani arriva alla battaglia parlamentare nel momento politicamente più delicato della legislatura. La vicenda Cuffaro lo ha indebolito, costringendolo a revocare due assessori, dopo aver difeso per anni un rapporto che lui stesso considerava strategico. La sua maggioranza è diventata una costellazione di micro-equilibri, con deputati inquieti, altri offesi, altri ancora pronti a contrattare ogni voto. E la finanziaria, approvata in giunta, rischia di essere travolta dal contesto in cui verrà discussa: più che una manovra espansiva, appare come un salvagente politico.

Ed è proprio su quel salvagente che il presidente punta. Ogni giorno Schifani annuncia qualcosa di nuovo: oltre 600 milioni del piano Step destinati all’innovazione; 200 milioni in Finanziaria per la decontribuzione delle nuove assunzioni, misura che il governo presenta come “strategica” e spalmata su tre anni; 18 milioni per il “Sicily-working”, pensato per convincere i giovani a restare o tornare in Sicilia. A questo si aggiungono i 15 milioni per mitigare gli effetti dei dazi sulle imprese esportatrici, intervenendo sui costi di trasporto e sul denaro. La fanfara prosegue con gli sconti sui voli per i residenti: misura prorogata fino al 28 febbraio 2026. Poi ci sono le fibrillazioni sui forestali, con l’ennesimo annuncio sull’aumento delle giornate lavorative, e tutta una serie di piccoli provvedimenti minori, pensati per risuonare nei territori.

I numeri, poi, fanno sempre il loro effetto. Il Centro Studi dell’Ars ha diffuso una nota in cui parla di un avanzo di amministrazione da 2,8 miliardi e di un saldo di parte corrente che nel 2026 toccherà i 584 milioni, “il valore più alto dell’ultimo quinquennio”. Un’immagine scintillante, che però si scontra con il dettaglio decisivo: quei soldi non sono spendibili, perché i rendiconti degli anni precedenti non sono stati approvati. È la fotografia perfetta della Regione: tante risorse potenziali, poca capacità di utilizzarle.

Intanto le opposizioni, almeno a parole, tentano di alzare il livello dello scontro. Il Movimento 5 Stelle ha lanciato un appello a scendere in piazza il 23 novembre “contro il cuffarismo e contro Schifani”, evocando Falcone e Borsellino e la Sicilia che merita “ben altro delle vecchie trame di potere, della corruzione e del clientelismo”. Ma lo slancio morale dovrà fare i conti con la realtà di Palazzo dei Normanni: quando si aprirà la sessione di bilancio, ogni scelta avrà un costo. E non è affatto certo che l’unità faticosamente costruita negli ultimi giorni – dal raduno nell’Abbazia di San Martino delle Scale fino alla conferenza stampa convocata all’Ars – sopravviverà alle pressioni.

La domanda, dunque, resta sospesa: le opposizioni manterranno la linea dura o cederanno alla tentazione del portafogli? Continueranno a gridare al fallimento del governo o accetteranno di sedersi al tavolo dove si spartiscono i fondi (episodio che qualche mese fa ha aperto una crepa nel Pd)? E soprattutto: riusciranno a trasformare la mozione di sfiducia in un atto politico vero, o diventerà l’ennesimo esercizio retorico, utile solo a qualche comizio e a un paio di manifestazioni?

La certezza, oggi, è una sola: se la Finanziaria passerà senza strappi, la mozione di sfiducia sarà solo un capitolo di colore. Se invece l’Aula dovesse trasformarsi in un’arena, allora tutto può succedere. Il destino della legislatura, ancora una volta, dipende dalla capacità delle opposizioni di dire no al piatto ricco che gli verrà messo davanti. Se lo faranno, la sfiducia – seppur perdente – avrà un senso politico. Se non lo faranno, il governo Schifani potrà dire di aver superato anche questa tempesta, pur restando appeso a un equilibrio che scricchiola a ogni mal di pancia.