Il caso Galvagno grida vendetta, eppure i riflettori delle opposizioni, dentro e fuori dal palazzo dei Normanni, sono puntati su Elvira Amata. L’assessore al Turismo – a cui è stata appena notificata la chiusura delle indagini – è certamente una preda più “facile” rispetto al presidente dell’Assemblea: l’uno ha garantito trattamenti equi e ripartizioni scientifiche in sede di manovra finanziaria; l’altra, invece, è solo una esecutrice materiale che di tanto in tanto – così riportano le carte della Procura di Palermo – intercedeva con l’imprenditore di turno per sistemare dei parenti.
La Amata ha un bersaglio puntato addosso, e le opposizioni stanno cercando di incidere minacciando la mozione di censura. Ma non hanno tenuto conto dell’ombrello di Schifani, che al momento ripara dalla pioggia i patrioti tutti: “Non ho mai chiesto le sue dimissioni”, ha detto il governatore, affrettandosi a smentire le ricostruzioni giornalistiche che lo volevano in rotta di collisione con l’assessore al Turismo. Dicono che si fosse infuriato per aver saputo dell’indagine dalla stampa. Macché… Il vessillo di Fratelli d’Italia, a meno di un regolamento di conti interno (a Roma ne hanno le scatole piene di una gestione così improvvida della cultura), continuerà a sventolare in via Notarbartolo.
Per questo appare del tutto illogica la richiesta di Movimento 5 Stelle e Pd, che hanno infranto l’ozio della domenica per “minacciare” Schifani: “Chiediamo al presidente della Regione di valutare con la massima attenzione l’opportunità di assegnare la delega dell’assessorato al Turismo ad un esponente che non sia di Fratelli d’Italia – ha scritto il capogruppo dem, Michele Catanzaro -. Nel rispetto del lavoro della magistratura ci sono valutazioni politiche che non possono essere ignorate”. Più diretti i Cinque Stelle: “Schifani non può più temporeggiare, rimuova l’assessora Amata e sottragga l’assessorato una volta per tutte a Fratelli d’Italia o sarà l’Ars a pronunciarsi – ha dichiarato il capogruppo Antonio De Luca -: è già pronta la mozione di censura contro l’assessora, per la quale chiederemo a tutte le forze di opposizione di offrire il proprio contributo per una definitiva risoluzione di questa triste pagina di malapolitica”.
Andare in fondo sarebbe, comunque, una perdita di tempo. La censura non equivale a una sfiducia e la Amata se ne andrà solo se “dimissionata” dal proprio partito, non da Schifani. Però una domanda sorge spontanea: dov’erano le anime belle di Pd e Cinque Stelle non più tardi di una settimana fa, quando all’Ars – conduzione dei lavori affidata al contiano Di Paola – qualcuno si pronunciava a favore di Galvagno chiedendogli “due passi avanti” anziché “un passo indietro”? Dov’erano questi temerari, quando il presidente dell’Assemblea, dando più valore alla Costituzione che social, decideva di rimanere saldamente ancorato alla poltrona, come se le contestazioni della Procura non fossero mai esistite? Eppure è il “cerchio magico” di Galvagno ad aver avallato questo profluvio di scambi clientelari o familistici, il cui rilievo penale sarà valutato dalla magistratura. Era la “califfa” Sabrina De Capitani (l’unica a essersi dimessa da qualcosa: l’incarico di portavoce) ad aver concentrato potere e consulenze nelle proprie mani, in cambio – questa la tesi della Procura – di finanziamenti pubblici agli imprenditori (provenienti dall’Ars). Ed era sempre lei ad amministrare la cultura, nella fattispecie la Fondazione Federico II, trattandola come una privativa.
Ma in attesa di addivenire a un esito – archiviazione o rinvio a giudizio – Galvagno ha fatto la sua mesta apparizione a Sala d’Ercole, sapendo di poter contare sull’apporto di tanti complici, della maggioranza e anche dell’opposizione, per uscirne santificato. Quasi beato. Cracolici, l’unico in aula ad alzare un velo sui comportamenti della corrente turistica di FdI, ha dichiarato la propria “umana comprensione” per Galvagno: “Chi vi parla non chiederà mai le dimissioni perché qualcuno ha ricevuto un avviso di garanzia”, ha precisato il presidente dell’Antimafia. Mentre i suoi colleghi, non solo di partito, si sono guardati bene dal passare all’attacco. “Non posso nascondere il disagio che ho vissuto in questi giorni nel leggere i giornali perché non riconoscevo il politico che ho conosciuto in assemblea”, ha detto il capogruppo del M5s, Antonio De Luca. L’omologo del Pd, Michele Catanzaro, ha annaspato: “La giornata odierna è complessa per diversi aspetti. Su una vicenda di questo tipo il parlamento siciliano non può essere scambiato per il tribunale. Sono giornate che ci impongono una riflessione”.
Nessuno, ad eccezione di La Vardera, ha avuto il coraggio di puntare il dito per manifestare la propria intolleranza rispetto ai metodi del “cerchio magico” di Galvagno. In pochissimi si sono pronunciati contro la pratica spartitoria delle prebende, che qualcuno vorrebbe persino cavalcare (tanto i soldi non vanno più alle associazioni, ma ai comuni…). Non avverrà nella prima sessione utile di bilancio, in programma a luglio. I contributi a cascata per i collegi elettorali, sono stati stralciati dal testo. Il bon ton ha imposto al governo di fare un passo indietro.
Ma le opposizioni, dopo aver colto l’inopportunità politica di certi comportamenti, riusciranno a far valere le proprie prerogative chiedendo un passo indietro al massimo rappresentante dell’istituzione parlamentare? O continueranno a balbettare dietro la pretesa assurda di spedire a casa un assessore che neppure Schifani ha il potere di scalfire? I patrioti sono e si sentono intoccabili. Taluni pensano di non essere nemmeno coinvolti in questa storiaccia che parte da Cannes. Il commissario Sbardella è riuscito a smentire persino l’esistenza di una corrente turistica dentro il partito. Come fai – con tanti fondi pubblici in gioco – ad affidarti soltanto alla presunzione d’innocenza e all’umana comprensione?