Non si era mai visto un ministro così. Almeno fino a ieri, quando Matteo Salvini ha deciso per la nomina della “scudiera” Annalisa Tardino come commissaria dell’Autorità Portuale di Palermo. Schifani l’ha presa malissimo, a tal punto da minacciare l’impugnativa del provvedimento: all’ex europarlamentare di Licata mancherebbero i “requisiti soggettivi” per l’attribuzione dell’incarico – fattispecie che il Mit ha respinto con fermezza – ma a mancare, secondo Palazzo d’Orleans, è stata soprattutto la concertazione, “in violazione delle norme che prevedono espressamente una preventiva intesa tra le parti”. Insomma, quello di Salvini sarebbe stato un affronto insopportabile per il presidente Schifani.

Il governatore è abituato a gestire le cose dell’Isola come fossero roba sua. Basti vedere l’imprinting per la nomina di Gianfranco Battisti ad Amministratore delegato della Gesap. La Regione non possiede una sola quota azionaria all’aeroporto di Palermo, eppure Schifani – dopo aver fatto e disfatto con Riggio – ha avuto l’ultima parola. Lo stesso Schifani, in qualità di commissario per gli interventi di manutenzione sull’autostrada Palermo-Catania, ha ottenuto il cambio al vertice della struttura regionale di Anas, non più in grado di soddisfare i suoi desideri. Andava tutto a meraviglia finché non si è palesato Salvini.

Il giudizio fino a ieri era lusinghiero. «Salvini è un ministro di Milano che sta lavorando per la Sicilia e per l’intero Sud, come mai nessun ministro del Sud aveva fatto in precedenza», aveva detto il presidente della Regione a Messina, durante la firma del protocollo d’intesa per il potenziamento infrastrutturale e la rigenerazione urbana delle aree ferroviarie. E anche altre volte si era espresso a favore dell’uomo del Ponte, che è stato capace di riportare l’Isola al centro della scena. Anche se a voler essere pignoli, un altro momento critico si era già palesato.

Riportate le lancette al dicembre 2023. Sono giorni frenetici per stabilire i fondi strutturali destinati agli investimenti della Sicilia. Gira voce che il Ministero delle Infrastrutture voglia “trattenere” oltre un miliardo di euro per la realizzazione del collegamento stabile sullo Stretto. Da Palazzo d’Orleans scatta l’alert: “La giunta si era impegnata a destinare un miliardo di euro di risorse del Fondo di sviluppo e coesione 2021-2027, dandone tempestiva comunicazione al ministro Salvini con una nota del 18 ottobre. La decisione governativa per cui la quota di compartecipazione della Regione Siciliana debba essere invece di 1,3 miliardi di euro non è mai stata condivisa dall’esecutivo regionale”. “Che ci sia una compartecipazione seppur minima di Sicilia e Calabria mi sembra più che ragionevole”, fu la replica di Salvini. Entro qualche giorno la frizione viene derubricata a “errore di comunicazione”.

Sul caso dell’Autorità Portuale, però, ecco il nuovo scontro. E né la Regione né il Mit sembrano indietreggiare. “La nomina dell’avvocato Annalisa Tardino a commissario straordinario dell’autorità di sistema portuale del mare di Sicilia occidentale, risponde a tutti i requisiti come accaduto positivamente in tutte le altre Regioni d’Italia – scrivono dal Ministero di Salvini -. Già mercoledì l’avvocato Tardino sarà in ufficio al lavoro: alle polemiche preferiamo i fatti”. La tensione con Schifani è acuita da un giallo: quale sarà la posizione di Luca Sammartino in proposito? E’ notorio che il leader leghista nell’Isola, che nel partito s’è fatto largo a suon di spallate, abbia finito per marginalizzare anche l’ex europarlamentare (costringendola alle dimissioni da segretaria nella scorsa campagna elettorale, per presunta incompatibilità). Ma è altrettanto ovvio che il golden boy non possa schierarsi né contro Salvini né contro Schifani, che aspetta di riaccoglierlo in giunta. Dove lo porterà questa prova di equilibrismo?

Il presidente della Regione, da parte sua, ha già numerosi grattacapi. Deve convivere con un partito, Forza Italia, che ha già dettato i tempi per una forma di ricambio generazionale. L’ultima esternazione di Marco Falcone sulla gestione del partito, e i segnali giunti dai “franchi tiratori” dell’Ars, hanno alzato il livello d’attenzione della coppia Schifani-Caruso: la loro posizione comincia a scricchiolare, soprattutto in vista del prossimo congresso regionale con cui verrà eletto il segretario. Non ci sarà spazio per conferme a tavolino o, meglio, per altre imposizioni dall’alto. “Bisognerà contare le teste”, per dirla con Giorgio Mulè, vicecapogruppo alla Camera.

Forza Italia ha già dato ampia dimostrazione, nel segreto dell’urna, di non aver apprezzato la gestione dispotica del partito e soprattutto l’assenza di rappresentanza istituzionale. Gli assessori Dagnino e Faraoni, rispettivamente all’Economia e alla Sanità, sono dei “tecnici” fuori quota. E il gruppo parlamentare, affossando una parte dei provvedimenti proposti a Sala d’Ercole, non li ha mai digeriti.

L’altra spina nel fianco di Schifani è rappresentata da Raffaele Lombardo e dal suo Mpa. Ma anche dagli alleati che l’ex presidente della Regione si è scelto lungo il cammino: vale a dire Gianfranco Micciché e Roberto Lagalla, che nel corso di questa legislatura non sono stati quasi mai allineati – eufemismo! – con il pensiero unico di Renato. Con Lombardo, poi, la rivalità è cresciuta mese dopo mese. Fino a un’esternazione contro il capogruppo del Mpa Di Mauro (“Ha fatto uno show di m…, io questi non li tengo ancora molto”) che ha portato a una sorta di guerra fredda permanente. Il leader autonomista ha paragonato Schifani a Trump, contestando apertamente la deriva filo-cuffariana. E non ha mai accettato che il Mpa potesse esprimere un solo assessore in giunta, a fronte dei due vantati da Lega e Democrazia Cristiana. Né la gestione complessiva del capitolo sanità (tanto meno in questa fase: sta per arrivare in posto la revisione della rete ospedaliera).

In vista del rush di fine anno, in cui dovrebbero tornare in aula provvedimento delicati (la riforma dei Consorzi di Bonifica, la legge sull’editoria), la coalizione di governo resta teatro di polemiche e di spaccature. E anche i rapporti personali (ormai incrinati) coi vari Salvini, Falcone e Lombardo rischiano di rappresentare per Schifani un ostacolo verso la ricandidatura a palazzo d’Orleans. L’unico partito con cui il presidente evita accuratamente di entrare in conflitto, per non mettersi contro Meloni e La Russa, è Fratelli d’Italia: ha accettato di comparire nei selfie con Galvagno (accusato di corruzione e peculato) e di mantenere caldo il posto all’Amata (nonostante gli strascichi dell’inchiesta palermitana) pur di ingraziarsi lo stato maggiore dei patrioti. Le proteste iniziali contro le nomine “imposte” di Scarpinato e Pagana sembrano un ricordo lontano. Da quel momento la fiducia è incondizionata. Ma non è detto che basterà per salvare la pelle. Sua e della Sicilia.