A cento anni dalla nascita, Leonardo Sciascia è più attuale che mai. La sua idea di giustizia sarà al centro dell’evento di venerdì 11 giugno, nel cortile Maqueda di palazzo Reale, dove la Fondazione Federico II, assieme alla Camera Penale di Palermo, ha organizzato un doppio momento celebrativo: alle 15.30, l’ultima delle “Letture Massimo Bordin” – un ciclo che onora la memoria del giornalista di Radio Radicale – sarà dedicata allo scrittore di Racalmuto. In serata, alle 20, andrà in scena la rappresentazione ‘La Sicilia come metafora’ a cura del Teatro Biondo, con la partecipazione eccezionale di Pamela Villoresi. Un programma culturale di ampio respiro, che sarà preceduto dall’intervento delle autorità. Oltre al presidente Gianfranco Micciché, che farà gli onori di casa, ci sarà pure la senatrice Emma Bonino: “Per me Sciascia era soprattutto un mito – ha detto al Giornale di Sicilia -. Avevo letto giovanissima “Il giorno della civetta” e “A ciascuno il suo”, è stato il primo scrittore a rompere il tabù della mafia e ci ha fatto comprendere che la mafia, come il rapportarsi con essa e la necessità di combatterla, non erano un problema della sola Sicilia. Non era né un qualunquista né un moralista: credeva nella moralità politica, nella legalità e nella democrazia e lottava contro i comportamenti che si allontanavano da questi principi”.

Fabio Ferrara

In prima fila anche l’avvocato Fabio Ferrara, presidente della Camera Penale di Palermo, che si è occupato degli aspetti organizzativi: “La caratteristica di Sciascia – esordisce Ferrara – è mettere la giustizia al centro di tutto. Come snodo, punto nevralgico della vita della società e dell’uomo. E’ un tema che si lega a quello della libertà e della dignità umana”.

Per Sciascia la giustizia non è mai banale. Tanto che le sue riflessioni gli procurano parecchi nemici.

“Da intellettuale ha sempre perseguito lo stato di diritto, senza mai giustificare le scorciatoie che talvolta la giustizia cerca di imboccare per arrivare a determinati risultati. E’ sempre stato un intellettuale scomodo, che qualcuno arrivò a definire “eretico”. Alla fine degli anni ’70 lasciò il Partito comunista per iscriversi ai Radicali: fu una presa di distanza per niente banale, in un momento storico – fra l’altro – in cui era nota la vicinanza fra il Pci e determinanti ambienti della magistratura”.

Cosa contesta Sciascia del clima dell’epoca?

“Sciascia va a toccare degli elementi sensibili. Vede e denuncia l’impianto e la cultura inquisitoria della giustizia dell’epoca. Nonostante molte cose siano cambiate, una determinata matrice culturale resiste e stenta a stemperarsi e a modificarsi in uno spirito più democratico”.

Lo scrittore di Racalmuto è il primo e denunziare – pubblicamente – il fenomeno mafioso. Ma, nel volgere di pochi anni, anche il fenomeno dei professionisti dell’antimafia. Toccando dei nervi scoperti. E’ scomodo anche per questo?

“Soprattutto per questo. Stigmatizzò determinati fenomeni – come quello dei professionisti dell’antimafia, o della borghesia mafiosa – senza indugio. Senza doversi preoccuparsi di salvare qualcuno o qualcosa. Ha messo il dito nella piaga e per questo fu aspramente criticato. Anche il giudice Borsellino una volta ebbe da dissentire, ma i due si parlarono: e da persone di grande cultura e intelligenza, si chiarirono. Questo significa che quando si ragiona di principi di carattere generale, che innervano il tessuto sociale in senso democratico o libertario, ci si intende subito”.

Tra le denunce più serrate contro il potere giudiziario c’è quella relativa al caso di Enzo Tortora.

“Le battaglia sono tante: da Enzo Tortora ad Aldo Moro. Da tutte emerge la critica per questo aspetto inquisitorio, quasi religioso, fideistico della giustizia. E’ uno degli spunti offerti da Sciascia alla discussione di venerdì pomeriggio. Svilupperemo un dibattito sui temi della giustizia, ma anche sulla modernità di questo intellettuale. Sul fatto che i concetti espressi nelle sue pagine siano facilmente riscontrabili in qualsiasi momento della storia. Anzi, ne approfitto per ringraziare la Fondazione Federico II e la dottoressa Monterosso, che sono magna pars di questa organizzazione”.

Torniamo al tema dei temi: giustizialismo contro garantismo. Rispetto a quarant’anni fa il dibattito si è elevato?

“Qualcosa è cambiato. Ma questo ha comportato fatica. Cinquecento anni di cultura inquisitoria non si cancellano nel breve volgere di qualche decennio. In Italia si registra, per fortuna, una mutazione verso un sentimento democratico della giustizia, ma persiste molta conflittualità culturale, sia all’interno della società che del mondo giudiziario. Diverse incrostazioni impediscono di abbracciare con pienezza il metodo di un vero processo liberale”.

Quali sono i requisiti minimi di un processo liberale?

“Questa ‘transizione’ è resa difficile da due elementi: dal non voler accedere alla separazione delle carriere e da determinati atteggiamenti in ordine alla presunzione di non colpevolezza, che per quanto sia in Costituzione, viene mortificata quotidianamente nelle notizie di stampa, nei talk show televisivi, ma soprattutto nella comunicazione giudiziaria attraverso le indagini. Il caso di Verbania è l’ultimo di tanti esempi che puntualmente si ripropongono. Nel libro “Il contesto” di Sciascia, la magistratura incarna una forma di casta che ancora oggi risulta attuale”.

La riforma di cui si sta occupando il ministro Cartabia contiene degli elementi di rinnovamento e di semplificazione della giustizia italiana?

“Ci sono dei rilievi importanti, come le misure premiali o l’abbandono di una visione carcero-centrica, che fanno sperare in un cambio di passo. Ma sotto il profilo delle garanzie difensive, ad esempio, resta molto da fare. Prenda l’eventualità di cambiare la natura stessa del giudizio d’appello: attualmente è previsto come una rivisitazione totale del merito del processo, ma si vuole trasformare in una critica della sentenza di primo grado, con facoltà molto più limitate. Si tratta di una garanzia difensiva che viene intaccata. Il sistema delle premialità non fa altro che accompagnare l’imputato fuori dal processo: non è una critica, ma una constatazione. Ma quando si parla del processo le note negative rimangono: l’acquisizione della prova, ad esempio, risente di aspetti culturali prettamente inquisitori”.

Quali altre migliorie apporterebbe?

“Ciò da cui non si dovrebbe prescindere sono le scelte politiche del legislatore: bisognerebbe chiedere una depenalizzazione seria e robusta. Oggi giorno il peso che grava sul processo è immane: nessuno riesce a stabilire con certezza il numero di fattispecie penali. E ogni fattispecie, per essere accertata, deve passare dal processo. Io, inoltre, proporrei un’amnistia. Se non si chiude con l’arretrato, o si limita il più possibile il numero dei reati, qualsiasi riforma è destinata a fallire”.

Brusca è un uomo libero grazie a una legge sui pentiti voluta (anche) dal giudice Falcone. Sciascia era molto scettico sul fenomeno del pentitismo. Ci aveva visto lungo anche stavolta?

“La legge sui pentiti è un compromesso, una trattativa autorizzata dallo Stato. Non c’è pentito che non abbia degli interessi e che non abbia occultato, secondo me, determinati fatti, favorendo suoi ex compagni o sodali. Ma d’altra parte è un mezzo – non si può disconoscere – per combattere il fenomeno della criminalità organizzata. Un male necessario. Sciascia, però, ci insegna che le dichiarazioni dei pentiti vanno prese con le molle e con estrema cautela. Brusca ha firmato un programma di protezione, ha fatto un suo percorso, certamente non ha detto tutto. Nasconderà qualcosa, non so cosa. Ma ripeto: fermo restando l’amarezza di rivedere in libertà l’esecutore materiale di Capaci, quello è il ‘contratto’ e va rispettato”.