Ieri, all’Ars, qualcuno si è distinto dal mucchio per dire che così non funziona. Si è affrancato dal tono santificatore dell’accoglienza a Galvagno, indagato dalla Procura di Palermo per corruzione, affermando che la questione è politica, etica, morale. Che non riguarda il singolo individuo, ma l’intero sistema. E’ stato il caso di Antonio De Luca, capogruppo del Movimento 5 Stelle: “Occorre che si riveda il metodo di lavoro per le prossime manovre economiche, cominciando con l’eliminare il ricorso ai maxiemendamenti che spesso possono nascondere manovre non sempre trasparenti”.

Anche Antonello Cracolici, presidente della commissione Antimafia, ha puntato il dito contro l’arroganza e l’occupazione dei posti di comando strategici da parte di Fratelli d’Italia: “Trovo inaccettabile l’idea che si voglia far passare il parlamento come un luogo criminogeno, per cui si fanno leggi ad hoc – ha detto l’esponente del Pd – questo è un insulto alla funzione propria di un parlamento, anzi rivendico il principio che questo parlamento rappresenta gli interessi e le categorie sociali della Sicilia. Diverso è se qualcuno pensa di usare le leggi per utilità personali”.

L’hanno fatto e continueranno a farlo se la magistratura non determinerà, una volta tanto, che qualcuno ha sbagliato. Che non ha avuto senso della misura. Nella sua pochezza, con tutta la retorica del caso e gli abbracci finali riconosciuti a Galvagno dalla sua “casta”, l’appuntamento di ieri dovrebbe aver sancito un punto di non ritorno. L’Assemblea si rimetterà in carreggiata, in attesa che la tempesta passi, eppure non si scorgono buone notizie all’orizzonte. In Sicilia, infatti, anche le battaglie di civiltà devono passare dalla cassa. Non c’è provvedimento o riforma che possa approdare in aula – e venire votata a scrutinio palese – se non è “agganciata” a una norma-mancia.

È quanto rischia di accadere al disegno di legge sugli Enti locali, esitato dalla commissione Affari istituzionali mesi fa e poi rimasto impantanato a Sala d’Ercole. La maggioranza di centrodestra, che aveva già impallinato la riforma delle province e l’aumento delle indennità ai manager delle partecipate, non è riuscita a trovare una sintesi. Ora, però, si è aperto uno spiraglio. La Conferenza dei capigruppo, la settimana scorsa, ha stabilito che il ddl sarà discusso contestualmente alle variazioni di bilancio di luglio. Magari sotto forma di emendamento “fuori sacco” (cosa c’entra con le mance da spartire nei collegi elettorali?).

Particolare attenzione è rivolta alla norma che prevede almeno il 40% di presenze femminili all’interno delle giunte comunali. Una modifica concreta che si traduce in un obbligo per i sindaci: l’articolo entrerà in vigore novanta giorni dopo la pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale. Il che significa che – in caso di approvazione a luglio – già entro fine ottobre molti sindaci dovranno rivedere la composizione delle rispettive squadre. A Palermo, ad esempio, Roberto Lagalla (giunta da 10 membri) dovrà passare da due a quattro donne. Lo stesso accadrà a Catania, dove Trantino potrà mantenere solo sei dei nove assessori uomini attuali. Secondo le stime dell’Ars, quasi nessun Comune siciliano raggiunge oggi la soglia del 40%. Solo nei centri sotto i 15 mila abitanti la norma sarà applicata a partire dalle prossime elezioni. Altrove, il rimpasto sarà immediato.

Un traguardo simbolico, certo, ma ancora lontano. Perché la parità si discute solo se si aprono i rubinetti della spesa. A denunciarlo non sono più solo le opposizioni. Anche la Democrazia Cristiana si è fatta sentire qualche giorno fa. “Non è più tollerabile – dice Pina Provino, segretaria del Movimento Donne – assistere a dichiarazioni di intenti che si scontrano con pratiche ostruzionistiche come il voto segreto. Chiediamo che il voto sia palese, affinché le posizioni siano chiare e inequivocabili”.

Ma il voto segreto resta la zona franca dell’Ars, dove le buone intenzioni evaporano e le contraddizioni diventano regola. Anche le riforme di principio, in Sicilia, devono sottostare al “do ut des”: passano se portano con sé risorse da distribuire. Il ddl sugli Enti locali introduce altre novità rilevanti: la più discussa è la figura del “consigliere supplente”, che entrerebbe in carica al posto degli eletti nominati assessori. Il testo prevede inoltre l’estensione del terzo mandato per i sindaci dei Comuni tra i 5.000 e i 15.000 abitanti (nei più piccoli salta ogni limite), l’istituzione di un albo regionale dei revisori dei conti e l’introduzione di un tagliando antifrode sulle schede elettorali. Una riforma tecnica ma ambiziosa, che però – senza una pezza d’appoggio finanziaria – resta al palo.

Anche su una norma ragionevole, come quella sui Consorzi di bonifica, il parlamento è riuscito a incartarsi. La riforma di cui si discute da anni, e che punta a ridurre da 13 a 4 gli enti consortili, è ostaggio di veti incrociati e richieste di approfondimento. A due settimane dalla relazione del presidente della Commissione Attività produttive, Gaspare Vitrano, l’Aula ha finalmente avviato il dibattito, alla presenza dell’assessore all’Agricoltura Barbagallo. Ma è bastata la richiesta del capogruppo di Fratelli d’Italia, Giorgio Assenza, per rinviare la chiusura della discussione generale.

A bloccare il percorso sono stati l’assenza dell’assessore all’Economia – che rende impossibile garantire la copertura finanziaria necessaria, stimata in almeno 10 milioni di euro – e il numero monstre di emendamenti: oltre 500, molti dei quali presentati dagli stessi partiti di governo. Il cuore della contesa resta la stabilizzazione del personale, nodo che divide gli alleati e frena la corsa verso il voto, previsto per l’8 luglio. Ma la dinamica è sempre la stessa: finché non si trova l’accordo sulle risorse da distribuire e sulle “ricadute” da assicurare nei territori, anche le riforme più attese restano congelate.