L’unico brivido del pomeriggio l’ha regalato Nuccia Albano, non più assessora della Dc, che alla chiamata nominale dei deputati, invitata a esprimersi sulla mozione di sfiducia, ha detto “sì”. Favorevole, in sostanza. Per un attimo, ma solo uno, sembrava che gli orfani di Cuffaro facessero pagare a Schifani la pavidità di una scelta incoerente: aver messo in panchina lei e Messina, non indagati, conservando il posto a Sammartino e Amata (su quest’ultima pende una richiesta di rinvio a giudizio per corruzione). Ma poi la Albano, dietro il richiamo di Galvagno (“Capiscono meglio i bambini dell’asilo”), ha tolto ogni dubbio: era un “no”. E così la chiama è andata avanti fino al consolidamento dei voti attesi alla vigilia: solo 26 i favorevoli (il gruppo di Cateno De Luca assieme ai promotori) e 41 i contrari. Tre gli assenti, tutti nella maggioranza.
Schifani è salvo, come prevedibile. Ma all’Ars è stato un brutto spettacolo, oltre che un pomeriggio inutile. Le opposizioni si sono affidate alla propaganda di un’azione politica – nata dall’inchiesta della Procura di Palermo e dalla “cuffarizzazione” della Regione – che non porterà loro un voto in più. Utilizzando qualche invettiva al limite della volgarità e offrendo a Schifani il fianco per poter dire: “Qual è il vostro progetto di Sicilia?”. Non esiste, in sostanza. Come non esiste un campo largo in grado di vincere le elezioni, pur contro una destra frantumata e litigiosa.
Non è andata meglio per il governatore che, fra una citazione della propria carriera antimafia e l’immancabile riferimento ai bilanci in ordine e alle agenzie di rating così clementi, non ha dato una singola spiegazione sul perché abbia cacciato i due assessori senza macchia della Dc (pur confermando la stima nei loro confronti); né sul perché i patrioti abbiano falcidiato col voto segreto le ultime variazioni di bilancio; né sul de profundis della sanità regionale (più volte è stata chiamata in causa la Faraoni); né ha saputo fornire un segnale ai poveri forzisti, spiegando che gli unici cambi in giunta sono sopraggiunti a causa di motivazioni personali (ma lui non ha trovato il tempo di rimpiazzare Falcone e la Volo con due esponenti di partito).
Ha saputo solo beccare Conte e i Cinque Stelle per aver manifestato davanti al murale di Falcone e Borsellino, alla Cala di Palermo, un luogo sacro utilizzato “per attaccare il presidente della Regione. Questo non lo posso accettare, io sono colui che ha stabilizzato il carcere duro”; poi ha sfoderato la propria patente di moralità attaccandosi al fatto che sarà Invitalia a gestire la gara per i due termovalorizzatori. Come se bastasse quello. Nessun richiamo, invece, alla questione morale che come un treno in corsa ha investito il suo governo travolgendolo (e anche il presidente dell’Ars, per il quale la Procura di Palermo ha appena chiesto il rinvio a giudizio – un altro! – per corruzione e peculato). Infine ha vomitato qualche ricordo sugli anni del governo Crocetta, per mettere alle corde il Pd: ci aveva provato anche Musumeci nei momenti di difficoltà, ma ormai è storia vecchia di 15 anni, incartapecorita, che non fa neppure ridere. Di cinque ore di dibattito non è rimasto nulla, se non la spiacevole sensazione di aver perso tempo.
Fra una settimana comincia la discussione generale sulla Finanziaria, il vero test che potrebbe mandare gambe all’aria il suo progetto di rielezione. A proposito, anche sul bis nemmeno una parola.


