Il “sistema Cuffaro” non è un ricordo del passato. È vivo, respira dentro i gangli dell’amministrazione regionale, si infiltra nei Consorzi di bonifica, nei bandi dell’assessorato alla Famiglia, nelle società partecipate come l’Ast. Non è più soltanto una questione di sanità – quella che per anni ha rappresentato la riserva di caccia della politica – ma un modello di gestione del potere che continua a riprodursi, adattandosi come un virus. Gli ultimi atti dell’inchiesta della Procura di Palermo non raccontano soltanto di appalti truccati o di favoritismi: raccontano di una Regione dove la linea di confine tra politica e burocrazia è stata cancellata.
C’è una telefonata, captata dai carabinieri del Ros, che dà la stura a due anni d’indagini condotte dalla Procura di Palermo. Giuseppe Cuffaro, fratello di Totò, dice: «Lui… lui va avanti se mio fratello lo manda avanti, se no lo stoppiamo». Sta parlando del progetto – mai realizzato, ma eloquente – di acquisizione dell’Azienda Siciliana dei Trasporti (AST) da parte di un gruppo legato a Dario Lo Bosco, ex presidente di Rfi, pure lui originario di Raffadali. È la fotografia di un metodo in cui le aziende pubbliche come estensione di un potere privato, l’economia come prolungamento della politica.
Poi c’è la scena, quasi teatrale, a casa di Totò Cuffaro. L’ex governatore e l’assessore all’Agricoltura Luca Sammartino, alleati di ferro, si ritrovano faccia a faccia per decidere le sorti di Giovanni Tomasino, direttore del Consorzio di bonifica della Sicilia occidentale. Tomasino è uno dei 18 indagati, accusato di avere gestito le commissioni d’appalto in modo “utilitaristico”. In ballo ci sono 280 milioni di euro, cioè i fondi destinati ai Consorzi di bonifica siciliani – che la Regione non è mai riuscita a riformare negli ultimi anni – per la gestione e la realizzazione di interventi infrastrutturali nel settore irriguo e della manutenzione del territorio. E quando Sammartino prova a metterlo da parte, Totò esplode: «Io da oggi in poi faccio l’assessore all’Agricoltura… ti rompo i coglioni su tutto!». È la rappresentazione più chiara di come il potere continui a esercitarsi per forza d’abitudine, come se tutto – bandi, nomine, appalti, assunzioni – fosse ancora materia da decidere in un retrobottega.
Era accaduta la stessa cosa sulla sanità. Quella volta fu Carmelo Pace, capogruppo della DC all’Ars e oggi fra gli indagati eccellenti della Procura di Palermo, a confermare la sensazione che le più importanti decisioni per la nomina dei manager si sarebbero prese attorno a un tavolo, alla presenza di pochi intimi. Apriti cielo. A quel punto Cuffaro se ne uscì con la storia del “sorteggio”. Un diversivo in cui la politica non ha mai creduto: non perché non fosse praticabile, ma perché avrebbe spostato il pallino dalle mani dei segretari di partito.
Un’altra intercettazione, all’assessorato alla Famiglia, completa il quadro. Vito Raso, braccio destro di Cuffaro e oggi segretario particolare dell’assessore Nuccia Albano, riceve da una dirigente documenti “in anteprima” sui bandi dedicati agli autistici. Cuffaro commenta: «I bandi prima di essere pubblicati li dobbiamo mandare a tutti i nostri amici… fate una lista di 30-40 cristiani». È tutto lì: la logica del favore, della clientela, dell’amico da favorire. È la genealogia di un potere che non muore, perché non ha bisogno di ruoli formali per esercitarsi.
E allora, di fronte a questo quadro, che senso ha parlare di rimpasti o di “discontinuità”? A cosa serve escludere la Dc dalla maggioranza, se le regole che consentono questa perversione restano immutate? Sul tavolo, per il momento, ci sono tre richieste: quella di Luca Sbardella, commissario di Fratelli d’Italia, che chiede – senza ufficializzarlo – di estromettere i cuffariani dalla giunta (e la Amata, assessore al Turismo indagata per corruzione?); quella di Raffaele Lombardo, che invoca l’azzeramento totale del governo (l’ha dichiarato in una intervista a ‘La Sicilia’); e quella, ancora più drastica, di Carlo Calenda, che propone il commissariamento della Regione per almeno cinque o sei anni. Tre linee diverse, ma che partono tutte dallo stesso presupposto: la fiducia nella politica regionale è finita.
Perché finché la politica potrà mettere le mani su tutto – sui concorsi per le stabilizzazioni, sulla scelta dei manager, sulle commissioni di gara – non cambierà nulla. La Sicilia continuerà a essere un laboratorio di malgoverno, dove le procedure diventano un orpello, la trasparenza una parola d’occasione, la meritocrazia un concetto estraneo. Per uscirne non basta la moralità, serve la chirurgia: bisogna recidere il legame organico fra potere politico e amministrazione, riscrivere le regole che disciplinano le nomine, le gare, i concorsi.
E forse – per quanto possa sembrare radicale – l’unica proposta davvero sensata è quella di Calenda: commissariare la Regione, almeno nelle aree più compromesse. Non per punire la Sicilia, ma per restituirle un po’ di igiene democratica. Perché qui non si tratta più di “mele marce”, ma del frutteto intero. Finché non cambieranno le regole, il sistema continuerà a funzionare anche senza Cuffaro.


