La grandezza del suo ultimo romanzo (“Sono cose che passano”, La Nave di Teseo) saranno gli altri a valutarla. A Pietrangelo Buttafuoco, per il momento, basta il dono della scoperta: “Me ne sono reso conto dopo averlo completato: studiando quel periodo, recuperando le storie, le fotografie e i ritagli di giornale della Sicilia degli anni ’50, viene fuori la grande libertà della vita quotidiana. Questa terra aveva un vigore oggi inimmaginabile. Il senso stesso della vita era diverso”. Guardare al passato con disincanto e nutrirsene. L’ultima fatica letteraria di Buttafuoco, da ieri in libreria, è la storia di un matrimonio impossibile fra Rodolfo Polizzi, barone di dubbia nobiltà, e Ottavia, “una giovane signora cresciuta in un contesto cosmopolita, nel jet set internazionale”. Si tratta di una vicenda realmente accaduta a Leonforte negli anni ’30, che lo scrittore, però, posticipa al 1951.

Cosa rappresenta quel matrimonio?

“Per usare un termine costruito artificiosamente, è un esempio di maschicidio. La conferma di una regola della pedagogia sociale: cioè che è difficile creare un’armonia fra socio-culture diverse. Ma la cosa che più mi sorprende – e lo ribadisco – era l’assoluta libertà di quel periodo, l’essere pronti alle trasformazioni”.

Le sue parole sanno di rimpianto, di occasione persa…

“Oggi la vivo come una sorta di contrappasso. Tutta quella fantasmagoria, quella ricchezza di personaggi, di vitalità, adesso è appannata dalla quotidianità, dalla dimensione in cui siamo precipitati. Parlo del contesto generale, che non riguarda soltanto i singoli paesi. Mi fa rabbia perché la potenzialità di fuoco, creativa, di vita che ha la Sicilia è difficilmente replicabile altrove”.

I suoi personaggi la incarnano?

“I personaggi di queste pagine – se vivessero al nostro tempo – manterrebbero il profilo vitale ed effervescente degli anni ’50. Non c’era angolo di Sicilia che potesse dirsi periferia. Prima era un mondo dove non mancava l’officina, la bottega artigiana, la capacità di studio, di analisi. I professionisti, gli avvocati – insomma, quelli del ceto dirigente – avevano una preparazione e una prontezza che oggi è difficile riscontrare. Era una tabula dove potevi costruire tutto”.

Oggi perché non è così?

“Perché siamo stati svuotati. Prima era sufficiente l’esistenza di un liceo a un paese per essere magnete e motore. Oggi tutto è stato trasformato in una sorta di parcheggio sociale”.

Le dinastie siciliane diventano letteratura. C’è un filo rosso che l’accomuna con alcuni autori del passato e del presente: da Tomasi di Lampedusa, che scrisse “Il Gattopardo”; passando per Stefania Auci, che ha rivalutato l’esperienza dei Florio.

“Vede, ‘Il Gattopardo’ e ‘I Vicerè’ sono un capitolo di politologia ancora attualissimo. Rappresentano la descrizione del trasformismo nelle due versioni: quella di Tomasi di Lampedusa e di Federico De Roberto. Se ci fosse un uomo di Stato che volesse confrontarsi con questi due libri, non potrebbe che raccontare l’attualità. Dall’altro lato, il grande successo di Stefania Auci è nell’aver svelato qualcosa in più rispetto al non detto, al rimosso e all’ignoranza generalizzata della scena nazionale”.

Che cosa?

“Che i Florio sono stati l’espressione di una modernità, di un’inventiva e di una capacità di strategia senza eguali. I Florio sono stati gli Agnelli nella dimensione egemone del Mediterraneo e della navigazione. E quando Stefania Auci ha indagato su quella vena viva, ha scatenato qualcosa che va oltre l’interesse o la nostalgia. È un modello vero e proprio di politica industriale. Al di là della fatica dell’intrattenimento, questo sotto testo emerge prepotente”.

C’è un personaggio della politica nostrana che incarna qualche modello letterario?

“Ce n’è uno che ultimamente si sta dando parecchio da fare…”.

Si riferisce a Berlusconi?

“E’ perfetto da raccontare con trame di letteratura. In lui si compendiano tre capitoli: uno è quello de ‘La commedia umana’, perché un personaggio balzacchiano come lui non lo trovi manco a costruirlo con la fantasia; un altro è quello di Shakespeare, perché l’aspetto drammatico e persino tragico dell’attraversamento di un’epoca, con quello che ha costruito e che lascia, soltanto il Bardo lo può raccontare; infine, l’ultimo capitolo che lo descrive è quello de ‘L’elisir d’amore’ perché lo ricorderemo per essere stato, al modo di Gaetano Donizetti, uno che ha saputo costruire un progetto di seduzione continua”.

La destra è uscita male dalle ultime Amministrative. Ma in Sicilia esiste una lobby delle faccette nere che “fiancheggia la politica” – per citare il direttore di Buttanissima, Giuseppe Sottile – “ma che, nei fatti, pensa soprattutto a chiudere affari con colossi editoriali dai quali riceve soltanto gratificazione”. Come nel caso dei soldini finiti al gruppo Rcs di Urbano Cairo per le manifestazioni ciclistiche.

“Il fatto è che si sono confusi. Sono caduti, insomma, nell’equivoco degli equivoci: credere che Cairo sia il nuovo Berlusconi. Invece no, il dott. Cav. Urbano è il nuovo Carlo De Benedetti, artefice e detentore di presentabilità sociale, garante del centralismo democratico visto che dalle sue reti tivù e dal suo impero editoriale forgia il politicamente corretto e detta la linea al Pd”.

Passiamo all’attualità più stringente. L’immagine di Catania sott’acqua fa male al cuore. Quante responsabilità ha la politica?

“Io sono convinto che la responsabilità, più che della politica, sia della polis. Cioè di tutta la comunità civile. Le faccio un esempio: quando si verificò l’alluvione spaventosa che portò alla devastazione dei boschi nel Nord-Est, ci furono dirette, talk, paginate di giornali, e quegli stessi tronchi, in una icastica rappresentazione, li abbiamo ritrovati come scenografia al Teatro Greco di Siracusa. Un’altra alluvione, quasi contemporaneamente, sferzò la Sicilia, facendo nove morti: ebbene, quella tragedia non aveva colpito l’opinione pubblica allo stesso modo”.

Come fa a dirlo?

“A tre settimane di distanza, quando tutto era stato riportato al decoro, all’ordine e alla speranza, il Corriere della Sera pubblicava in prima pagina l’immagine del ‘prima e dopo’ della sventura del Nord-Est. Quella stessa fotografia da noi non si può scattare perché abbiamo una somma di disgrazie, tragedie e devastazioni che si stratificano. Ogni volta che passo dalla Catania-Messina osservo l’avanzamento dei lavori per la rimozione della frana che cancellò un’intera corsia, nei pressi di Letojanni. Su quella frana era cresciuto un albero che diventava sempre più grande… Grazie a Dio non ci sono stati morti, ma quanti ponti Morandi abbiamo avuto? Ecco: il dissesto idrogeologico della Sicilia è una sorta di work in progress che va a sommarsi ad altri eventi della stessa rilevanza”.

Ma perché è colpa della polis e non della politica?

“Perché non riusciamo a farne un tema, una corale rappresentazione per dire definitivamente basta. Non voglio infierire, ma quando quella scena accadde nel Nord-Est ci fu una mobilitazione generale per provare a risolvere la vicenda. Il Corriere pubblicò quelle foto a dimostrazione di come ci si rimbocca le maniche. Noi invece accettiamo qualunque cosa. Siamo abituati al fatto la Palermo-Catania sia diventata una sorta di trazzera da attraversare come una pista di motocross. Così come ci abituiamo a tutto quello che ci crolla addosso. Ma c’è anche un altro fatto, ancora una volta una questione di ceto dirigente…”.

Prego.

“Come diceva Mimì La Cavera, ex presidente di Confindustria Sicilia, “una volta dovevamo metterci in ginocchio per chiedere a qualche galantuomo di mettersi in lista, bisognava supplicarlo: lasciare la professione per dedicarsi alla comunità. Ora, invece, tutti primi al traguardo della candidatura…”’.

È il contrappasso di prima.

“Negli anni ‘50 tutto il mondo arrivava in Sicilia. I tavoli da gioco delle campagne di Caltanissetta non avevano nulla da invidiare al Principato di Monaco. A casa dei genitori di Vincino (il compianto Vincenzo Gallo, vignettista e giornalista) arrivavano tutti: da Montanelli a Man Ray, da Ionesco a Pasolini. Anche la casa dei Piccolo, a Capo d’Orlando, era frequentatissima. C’era un fermento…”.

Un’altra forma di decadentismo è rintracciabile nell’esultanza di un pezzo del Senato alla bocciatura del Ddl Zan.

“Per me sono soltanto gli esiti di giochi elettorali. Il contenuto è l’ultimo degli argomenti presi in considerazione. Come quando cadde Prodi e mangiavano la mortadella. Un elemento di frenesia per fronteggiare la claustrofobia dell’Aula”.

Ai giornalisti insegnano la continenza. Alcune situazioni la richiederebbero anche da parte dei parlamentari, o no?

“Siamo così continenti, mansueti e obbedienti nella costruzione di un obbligo del pensiero unico, che non mi sembra possa essere risultata intaccata la granitica avanzata verso… il futuro!”.

Il “suo” vicerè, al secolo Gianfranco Micciché, s’è recato a Firenze per chiudere un accordo con Matteo Renzi.

“Purché si ricordi che il primato della lingua non è quello del volgare fiorentino, bensì quello della Scuola siciliana dove il vicerè sta sempre sopra il re”.