C’è un numero che li batte tutti e serve a spiegare il flop del Reddito di cittadinanza, certificato nelle ultime ore anche dall’Ocse, l’organizzazione parigina che si occupa di sicurezza e cooperazione. Arriva niente meno che dalla Sicilia, dove su 556.754 beneficiari della misura, soltanto 6.662 hanno firmato un contratto di lavoro. Circa uno su cento. Sarebbe questo il magnifico successo di una misura nata per combattere la povertà e incrementare le politiche attive del lavoro? Travaglio, in tv e dalle colonne del Fatto Quotidiano, dice di non capire tutto questo accanimento. Ma è proprio l’Ocse, nel rapporto sull’Italia pubblicato lunedì scorso, a esprimere un verdetto unanime: “Il numero di beneficiari che di fatto hanno trovato impiego è scarso”. Scarsissimo. Pertanto, sarebbe bene “ridurre e assottigliare il Reddito per incoraggiare i beneficiari a cercare lavoro nell’economia formale”. Secondo l’ultimo sondaggio SWG, appena il 6% degli italiani ritiene che il Reddito va bene così com’è e non occorre cambiarlo; il 33% preferirebbe abolirlo; il 31% riformarlo; il 25, infine, sostituirlo con forme di sostegno e inclusione completamente diverse.

Il Paese ne discute da un pezzo. Renzi ha proposto di abrogarlo attraverso un referendum; Salvini, ch’era vicepremier quando venne approvato, si è convertito sulla via di Damasco, e sarà il primo firmatario di un emendamento alla Legge di Bilancio, con cui proverà a cancellarlo; Meloni lo schifa (“E’ metadone di Stato”); la sinistra lo difende. Il M5s manco a parlarne. Il Ministro del Lavoro Andrea Orlando, dopo aver fatto fuori uno dei suoi artefici (il capo di Anpal, Mimmo Parisi) ondeggia fra due sentimenti: da un lato vorrebbe mantenerlo, perché “ha funzionato come contrasto alla povertà”; dall’altro s’interroga su “come armonizzarlo”. Fra le varie debolezze di questo strumento, c’è anche l’incapacità di intercettare i “veri” poveri: il 56%, come scrive la Caritas nel proprio rapporto annuale, è tagliato fuori. Al contrario, ne beneficiano famiglie che non sono affatto povere (il 36%). L’assegno di Stato, che oggi raggiunge tre milioni e mezzo di persone (per un importo medio di 579 euro a nucleo: dati Inps di fine agosto), non sta assolvendo alla sua funzione originaria.

Eppure, secondo i Cinque Stelle, è tutto grasso che cola. L’ex premier Giuseppe Conte, oggi capo politico dei grillini, trova “vigliacco e folle che politici con stipendi da privilegiati chiedano di eliminarlo”. Ma sarebbe ingiusto, oltre che limitante, ridurre la questione a una lotta di classe. Sono in ballo alcuni principi come l’equità e la giustizia sociale. Ad esempio non c’è nulla di equo né giusto nell’ultimo episodio rintracciato a Corleone: dove un “furbetto” ha percepito l’assegno di Stato al posto di un defunto. Dopo la morte dell’uomo, aveva presentato, spacciandosi per lui, una dichiarazione sostitutiva unica mirata a garantire il proseguimento dell’erogazione del beneficio fino allo scorso giugno. Ha incassato tutto fino all’ultimo centesimo, poi è stato beccato e denunciato.

Draghi proverà ad intervenire. Ma non subito, e nemmeno troppo. Il premier, infatti, si è detto d’accordo col principio ispiratore del Reddito. Ma anche la tempistica – c’è una pandemia in corso, e gli effetti senza Rdc sarebbero stati persino più devastanti – impone cautela. Al Ministero, dallo scorso marzo, è insediato un comitato scientifico per la valutazione di una misura, che, nel primo triennio, costerà alle casse dello Stato qualcosa come 18,3 miliardi. Ai vertici c’è la sociologa Chiara Saraceno, che ha rilasciato alcune dichiarazioni a Repubblica: “Il Reddito – ha detto l’emissaria del ministro Orlando – è partito prima che venissero messe a punto le misure di accompagnamento. I centri per l’impiego non erano pronti. Ma c’è anche un problema di occupabilità dei beneficiari, che molto spesso hanno una bassa qualificazione: andrebbe rafforzata la formazione”. Questo è uno dei problemi che attanaglia in modo particolare la Sicilia, dove una buona fetta dei percettori non è in possesso dei requisiti minimi per poter accedere al mondo del lavoro. Inoccupabile, oltre che inoccupato.

Ma qui emergono tutte le difficoltà dei centri per l’Impiego – sottodimensionati nel personale, sprovvisti degli strumenti necessari – nel rilevare questo pezzo di società. Secondo gli ultimi numeri forniti dall’Inps, appena 106 mila beneficiari hanno sottoscritto il patto di servizio, necessario per avviare al lavoro. Ma quelli presi in carico dai navigator sono soltanto 84 mila. Mentre sono 13 mila le persone a cui sono state prospettati stage o tirocini formativi (in 2.767 ne hanno portato a termine uno). A una platea di quasi 50 mila persone, invece, è stato proposto un percorso formativo, ma anche in questo caso la risposta è scadente: 10 mila lo hanno concluso. Da questi numeri emerge una certa fatica nell’intercettare, ma anche nell’accompagnare queste persone verso il mercato del lavoro. Anche perché la riforma dei Cpi, che secondo l’ex Ministro dello Sviluppo Di Maio avrebbe dovuto realizzarsi subito (alla cifra di un miliardo), giace ancora nei cassetti. Soltanto ieri, dopo un lungo tira e molla sui criteri, la Regione ha sbloccato una procedura concorsuale, con l’assistenza informatica di Consip, per un migliaio di giovani da assumere a tempo indeterminato. Due i percorsi individuati: per i 537 laureati sono previste una preselezione sulla base di titoli di studio e una prova scritta; per i 487 diplomati, invece, prove scritte e orali. Quest’ultima procedura (senza preselezione, quindi) varrà anche per altri 52 laureati di vari profili. E’ un primo passo.

Restano sul tavolo una miriade di questioni che Roma dovrà affrontare. Entro fine settembre la Saraceno dovrà presentare una serie di proposte utili al “tagliando”. Ci si muove su due binari: rafforzamento delle misure per contrastare la povertà; e aggancio alle politiche attive del lavoro. Per evitare che troppi poveri rimangano fuori, si sta pensando di rivoluzionare i criteri d’accesso, riducendo da 10 a 5 gli anni di residenza in Italia richiesti e di valutare diversamente il patrimonio posseduto. C’è poi la questione della cosiddetta scala di equivalenza: l’attuale reddito favorisce i single e penalizza le famiglie numerose. Bisognerà riequilibrare il meccanismo perché – come ricorda Repubblica – il 44 per cento dei beneficiari è composto da un nucleo singolo mentre sono solo poco più del 7 per cento i nuclei composti da cinque persone. Ci sarebbe il tema del costo della vita, che varia dal Sud al Nord (dove è certamente più alta, mentre il Rdc non gode di alcuna differenziazione territoriale). Ma agire in nome e per conto delle regioni settentrionali, al momento, rischia di diventare un boomerang. E Draghi non se lo può permettere.

Secondo Stefano Scarpetta, direttore per il Lavoro e le Politiche sociali dell’Ocse, “la platea dei beneficiari deve diventare più vasta. Sono troppo stringenti le norme sulla residenza in Italia degli extracomunitari o sul peso del patrimonio posseduto pur se minimo. Va però abbassato il livello: l’assegno massimo di 9.360 euro annui equivale a uno stipendio in alcune regioni. E vanno strette le maglie contro l’evasione fiscale”. Di ricette ce ne sono tante, bisogna trovare il coraggio di avviare il procedimento. E di correggersi in corsa, qualora necessario. Sistemata la prima parte, bisogna costruire il resto. Per evitare che molti, troppi giovani preferiscano ripiegare sul “divanismo”. Che non si trovino più lavoratori stagionali (come accaduto quest’estate). Che ci si faccia ridere dietro, consegnando il sussidio a picciotti e scagnozzi di bassa levatura. O che si alimenti il lavoro nero, come spesso accade. L’Italia è stato l’ultimo Paese dell’Unione – solo la Grecia è arrivata dopo – a dotarsi di uno strumento per sostenere le fasce di popolazione più povera. Potrebbe essere la prima a riformarlo. Fate qualcosa, ma fatela in fretta.