Un miliardo e quattrocento milioni da mettere “a terra”. E ancora, per citare alcuni esempi: 400 milioni di FSC (Fondi Sviluppo e Coesione), 45 per abbattere i mutui, 100 per rilanciare le aree industriali, 90 per la rinascita delle Terme. Al netto dei bandi già partiti con Irfis. Se fosse solo una questione di piccioli, le imprese siciliane dovrebbero già produrre in serie microchip e intelligenza artificiale, altro che lottare per pagare gli operai con stipendi da fame. E invece, come spesso accade dalle nostre parti, la politica ha imparato a trasformare i soldi in consenso. Ma non necessariamente in sviluppo.

Edy Tamajo, assessore regionale alle Attività produttive, ha fatto della regia sui fondi europei il proprio marchio di fabbrica. Non passa mese senza un nuovo annuncio. L’ultimo, freschissimo, è quello relativo alla presentazione di sei bozze di bando, per un totale di quasi 263 milioni di euro, nell’ambito del PR FESR 2021–2027. Sono stati convocati sindacati e associazioni di categoria nella sede dell’assessorato, per una condivisione formale degli obiettivi. Il copione è ormai collaudato: il confronto, dice Tamajo, “ci permetterà di affinare i bandi e avere grande appeal sul territorio. La sfida della competitività si vince insieme: con l’innovazione, la transizione ecologica, la formazione e il sostegno alla digitalizzazione, ma, soprattutto, con un dialogo costante e reale tra istituzioni e mondo produttivo”.

Nel dettaglio, le sei linee di intervento puntano su ricerca collaborativa e trasferimento tecnologico, innovazione delle imprese, digitalizzazione (con accenni all’intelligenza artificiale), spazi per start-up, qualificazione del capitale umano e riqualificazione energetica. Le parole d’ordine sono sempre le stesse. Ma dietro lo storytelling c’è una realtà più sfumata.

Era aprile quando a un incontro presso la Camera di Commercio di Palermo-Enna, l’assessore aveva annunciato un bazooka in grado di cambiare – o magari risollevare – le sorti della Sicilia: “Da fine maggio pubblicheremo bandi per un totale di 1,5 miliardi, in parte saranno gestiti da Irfis-FinSicilia. Si tratta di risorse provenienti da fondi Fesr, Fsc e Poc e l’obiettivo è chiaro: trasformare queste risorse in opportunità concrete. Siamo al lavoro per costruire un ecosistema favorevole alle imprese, dove innovazione, capitale umano e ricerca non siano parole vuote, ma pilastri reali dello sviluppo”.

La verità è che, a fronte di risorse imponenti, il tessuto produttivo regionale resta fragile, a basso valore aggiunto, poco competitivo. I salari sono tra i più bassi d’Italia, l’occupazione stabile resta un miraggio, e le imprese – anche quelle che intercettano i bandi – raramente riescono a generare una trasformazione duratura. Ma questo non scalfisce il successo del “modello Tamajo”. Perché il suo non è solo un assessorato: è un laboratorio permanente di consenso.

Tamajo è dappertutto. Presidia il territorio, dialoga con le parti sociali, promette strumenti agili, calibrati, risolutivi. Ogni bando è una passerella, ogni misura è costruita come risposta a una domanda precisa. Categorie e ordini professionali si sentono coinvolti, ascoltati, valorizzati. In una terra dove l’accesso alla risorsa pubblica è da sempre elemento centrale nella costruzione del potere, la sua è una strategia scientifica. Che paga dividendi.

Non è un caso che alle ultime Europee, pur dovendo rinunciare al seggio per un ordine di partito (Tajani ha imposto l’elezione di Caterina Chinnici), Tamajo abbia raccolto più voti di tutti: 121 mila preferenze. Segno che il “parlare con il territorio” continua a pagare. E che la politica dei bandi – se ben presentata – può valere quanto e più delle campagne elettorali.

Il punto, però, è tutto politico. Perché mentre Tamajo capitalizza, il presidente Schifani fatica a stargli dietro. Le misure promosse da Palazzo d’Orléans – dai bonus per i voli a quelli contro la povertà estrema – appaiono deboli e frammentate. Nella gestione dell’emergenza idrica o nella crisi dell’agricoltura, il governo regionale è parso più impegnato a rimediare che a prevenire. Schifani governa, ma Tamajo costruisce. Il primo prova a calmierare le emergenze (spesso con armi spuntate e dentro una macchina amministrativa ingessata); il secondo prospetta investimenti, visioni, impalcature di sistema.

Non è ancora una sfida aperta, ma è già una tensione evidente. E il centrodestra lo sa. Nessuno lo dice apertamente, ma l’ombra dell’assessore di Mondello si allunga sul futuro della coalizione. Se Schifani dovesse decidere di tentare la riconferma nel 2027, dovrà prima fare i conti con chi, nel frattempo, avrà distribuito miliardi, costruito reti, consolidato alleanze con imprenditori, sindacati e professionisti. E che, per il suo attivismo crescente, ha finito per mettersi fuori dal suo stesso partito e ai margini delle decisioni che contano: prima gli è stato sfilato il direttore generale del dipartimento (arruolato da Schifani in persona), poi persino un assessore al Comune di Palermo (Rosi Pennino, responsabile dei Servizi sociali, sostituita da Mimma Calabrò).

Il campo di battaglia, intanto, si allarga. E Tamajo, mentre corre, continua a far parlare di sé. Con soldi, bandi, e una potenza di fuoco che – per ora – nessuno sembra in grado di eguagliare.