Corsi e ricorsi. Post, canzoni, balletti. Non c’è elezione e, per estensione, momento della vita politica senza social. Chi canta canzoni in Puglia, chi pubblica meme a tema Halloween, chi si butta con un carico di spontanea goffaggine su una nuova piattaforma, chi cerca testimonial pop per battaglie referendarie, chi diventa virale perché “cringe”. Una vecchia pratica della politica, che vuole arrivare ovunque e si adatta agli strumenti del momento, con successi alterni. È la tiktokizazzione, bellezza!

Dopo 8 secondi distogliamo lo sguardo. Lo dice una ricerca dell’Università dell’Ohio. Esagerano? Chissà. Lo span di attenzione è sempre più ridotto, nel 2000 era 12 secondi. Sarà questa, forse, la statistica che strateghi politici e candidati hanno stampato nei loro uffici. Un monito prima di ogni post. Il risultato è una rincorsa al contenuto giusto, da digerire velocemente sullo smartphone. Che faticaccia. Perché i contenuti della politica spesso sono ostici, complicati o semplicemente noiosi.

Non sembrerebbe il caso di Antonio Decaro, ex sindaco di Bari e candidato del centrosinistra alla regione Puglia. Decaro è un esempio di scuola: la sua pagina instagram è una vetrina della pop-politica nostrana, gestita in modo certosino dall’agenzia Proforma, già inventori della vittoria di Nichi Vendola su Raffaele Fitto nel 2005.

Tanto è cambiato da allora. I contenuti di Decaro oggi fanno sorridere, anche se qualcuno storce il naso. Sta spopolando, tra qualche sogghigno, la canzone confezionata per lanciare l’ex sindaco alla guida della regione: Puglia che spera, cover scritta e cantata da rapper e cantanti “di giù”, sulle note della celebre “Gente che spera” degli Articolo 31.

Le canzoni sono un espediente ricorrente della politica. Si pensi a “Meno male che Silvio c’è”, dedicata a Berlusconi e cantata dai forzisti anche post mortem, oggi che Silvio non c’è più, con un effetto straniante. Ma il caso Decaro è più di una canzone. Post sulle olive del Salento, video tra i campi di cotone che “sembra la Louisiana” e invece è Foggia.

Tutto un po’ cringe, anche se funziona. “Ogni stratega ha un suo stile, come lo ha ogni candidato. Per Decaro è lo stesso, ma ciò che funziona molto bene per lui non è detto che vada bene per gli altri”, ci insegna Giovanni Diamanti, presidente di Youtrend. Ci si abitua al Decaro-style, insomma. Non fate gli snob. “Tutto va fatto su misura, altrimenti diventa cringe”. Come nel caso di Mario Monti, che quando si candidò con una sua lista impostò una campagna troppo alla mano e fallì.

È la parola chiave per descrivere la goffaggine dei politici sui social. Cringe, dall’inglese, indica quel senso di imbarazzo provata da chi guarda. Un termine che ai più giovani appare calzante ogni qual volta vedono Matteo Salvini impratichirsi su TikTok con dirette fiume che finiscono tra gattini e buffi cappelli aggiunti dagli utenti divertiti mentre il vicepremier leghista parla di immigrati o cantiere dell’Alta velocità.

Tra salumi, animali e sparate, Salvini rappresenta un capitolo a parte. Berlusconi, nella sua ultima fase, era sì cringe, ma in modo più sottile, quasi dolce, come può apparire un anziano parente.

Per stare all’oggi, è cringe lo scambio di insulti via card a tema Halloween inscenato sotto festa da Fratelli d’Italia e Partito democratico. Lo è, andando in ordine sparso, lo slogan di Leoluca Orlando, candidato di Alleanza Verdi e Sinistra alle scorse Europee: “Io sono razzista. Perché difendo la razza umana”. Come lo è anche lo scontro tra Carlo Calenda e la Lega sul tappo di plastica. E perché no, pure Giorgia Meloni che usa la frutta (dai meloni, of course, alle ciliegie varietà Giorgia) per dirci chi votare. Sicuramente, il campione del cringe tra i politici italiani, quello che fa distogliere lo sguardo non per mancanza di attenzione ma per eccesso di imbarazzo, è Roberto Vannacci. Ecco il generale che posa con una cernia per attaccare la sinistra, che indossa una vestaglia sul bagnasciuga di Viareggio, che mentre fa il bagno in Toscana lancia un appello per “cacciare la sinistra” dalla regione.

Tutti in fila, a caccia di like. Per colpa dell’algoritmo, bisogna postare di più e tenersi sulla cresta dell’onda, seppur con risultati discutibili. Una necessità, soprattutto da quando Meta ha chiuso alla pubblicità politica nell’Unione europea: da questo ottobre, anche se gli effetti sui nostri politici sono stati chiaramente retroattivi, su Facebook e Instagram non è più possibile acquistare annunci a sfondo politico, elettorale o sociale.

Una bella grana per chi cerca di allargare sempre di più il pubblico. Risultato: frasi forti, contenuti divisivi, talvolta cringe. Più like, meno contenuti: inseguire l’algoritmo non è facile, espone a una inevitabile tiktokizzazione della politica, ben raccolta da strepitose pagine-archivio come Crazy italian politics o il Grande Flagello.

Lo stesso vale anche nella ricerca fuori dai social (o proprio perché poi sui social si vuole incidere). Un caso su tutti è la ricerca di testimonial pop da parte dell’Associazione nazionale magistrati. La sfida è convincere gli italiani a votare No al referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati. E allora chi meglio di Edoardo Bennato, Serena Brancale, Monica Guerritore, Fiorella Mannoia per spiegare il piano autoritario della destra che riforma la giustizia per ottenere “i pieni poteri”. Cantanti e attrici con un piglio mediatico forte, che il comitato del No vorrebbe arruolare presto. Non saranno Rita De Crescenzo, funambolica tiktoker napoletana che cavalca a suon di like il trash e accarezza l’idea del salto in politica, ma basteranno un paio di cantanti famosi per svecchiare la grigia “casta” dei pm, no?

Nuove soluzioni, a una vecchia pratica. “Ricordate quando Flavia Vento ha parlato alla festa della Margherita?”, rispolvera Diamanti. “Diciamo che certe pratiche ci sono sempre state, solo che ora siamo più connessi e la goffaggine è dietro l’angolo, ma la politica si adegua ai nuovi strumenti, come ha sempre fatto”. Anche se talvolta è tutto così cringe.