Il viaggio fra i dissalatori di Sicilia (non ancora in funzione), l’irruzione nella Sala Vip dell’aeroporto Falcone-Borsellino, la nomina dei subcommissari dell’A-19 (con l’esclusione di Simona Vicari in zona Cesarini), non fanno di Renato Schifani un leader. Cioè quella caratteristica che sarebbe servita a tenere insieme una coalizione ormai in pezzi. Semmai, sono esempi estemporanei, spesso umorali, di un’azione di governo che non ha mai avuto il respiro di cui avrebbe necessitato per poter incidere. Infatti, al netto delle inchieste giudiziarie che hanno azzoppato la credibilità delle istituzioni (su tutti Gaetano Galvagno, presidente dell’Ars) ad essere mancata è la politica. Che si è ridotta a mera battaglia per uno strapuntino, una nomina, o una mancetta.
Tolte le grandi riforme – non ce ne sono all’ordine del giorno – l’attività dell’esecutivo risulta paralizzata (anche) per l’ostilità dell’aula che Schifani non è più riuscito ad “amministrare”. Il presidente, all’atto dell’insediamento, s’era detto un parlamentarista convinto, ma da anni rifiuta un dibattito sul turismo e anche adesso che gli scandali sono venuti alla luce, e le richieste del M5s appaiono reiterate, lui si sottrae. Il responso è sotto gli occhi di tutti: l’ostruzionismo delle opposizioni, e quello di una decina di franchi tiratori, ha mandato in soffitta il tentativo di riforma dei Consorzi di Bonifica, che veniva ritenuto uno dei punti di governo più “qualificanti”. Lo schiaffo ricevuto in aula ha avuto un inevitabile riflesso fuori, mandando su tutte le furie gli agricoltori e le organizzazioni sindacali. Ma è solo il primo di alcuni punti di non ritorno che rischiano di incrinare una volta per tutte il rapporto tra Schifani e la sua maggioranza, e fra i siciliani e la politica.
A tenere sotto scacco il governo, al netto dei Consorzi (per i quali si è detto – ma quanti ci credono? – che ne riparlerà dopo l’estate), ci sono altre due questioni impellenti che rendono il percorso di Schifani un campo minato. La prima proposta, che approderà in commissione Bilancio a breve, è la cosiddetta manovrina. Una Finanziaria-ter che la giunta ha caricato di aspettative e di milioni (345). Ma sulla quale, sostanzialmente, si sta già ritrattando: se da un lato, alcuni parlamentari, anche forzisti, chiedono risorse aggiuntive e interventi “territoriali” (e potrebbero ottenerli per circa una trentina di milioni), dall’altro il governatore si vedrà costretto a sforbiciare una serie di iniziative per evitare che gli vengano impallinate un’altra volta: si dovrebbe passare da 35 a 18 articoli. L’obiettivo è smontare le variazioni di bilancio in due, rimandando alcune voci all’autunno.
Schifani, ch’era stato così premuroso nel convocare sette ispettori dell’Asp di Palermo, per controllare la freschezza di riso e caponata nella lounge di Punta Raisi, dovrà dare l’impressione di essere un presidente democratico e coinvolgente, due caratteristiche che neppure i suoi gli riconoscono. Oltre a una naturale inclinazione nel confronto con Cuffaro e Sammartino, e una quasi-venerazione nei confronti dei patrioti romani (motivo per cui siede a Palazzo d’Orleans e per cui non ha messo alla porta l’assessore Amata dopo l’avviso di conclusioni indagini notificatole dai magistrati), Schifani non ha mai saputo fungere da collante con coloro che gli hanno garantito i voti nel 2022 e che gli garantirebbero – oggi sempre più a fatica – i voti in aula.
Dalla Finanziaria-ter si rischia di non tornare indietro, o di farlo ulteriormente ammaccati. Ma l’altra grande prova che attende il governo nei prossimi giorni, come fossimo in un “triangolo della morte”, riguarda la revisione della rete ospedaliera. Un altro punto qualificante che appare l’unico viatico per provare a uscire dopo 18 anni dal Piano di rientro dal disavanzo (cioè lo strumento che impedisce alla Regione di investire in sanità, al netto di quanto già previsto per garantire i Lea – Livelli Essenziali di Assistenza).
Il confronto tra l’assessore Faraoni e le delegazioni dei sindaci delle varie province, però, è stato un fallimento. Anche in commissione Salute, mercoledì scorso, qualsiasi tentativo di conciliazione è stato rigettato da opposizione e pezzi di maggioranza. Non sono chiari, o vengono ritenuti abbondantemente superati, i criteri con cui la Faraoni ha modellato i reparti degli ospedali dell’Isola. Talvolta suscitando suggestioni contrarie (come nel caso dell’ospedale di Paternò, per il quale esiste un aumento di posti letto in controtendenza con la media nazionale). “Non si può progettare il futuro guardando malamente al passato – ha detto il capogruppo del Movimento 5 Stelle, Antonio De Luca – e questa rete è solo un pessimo restyling di quella del 2022, che a sua volta era una modifica di quella mai entrata in vigore prodotta dall’allora assessore Gucciardi. In altre parole è una rete vecchia”.
La questione verrà approfondita a Roma, al Ministero, dal direttore Iacolino; ma Schifani non ha più pronunciato una parola, dopo essere intervenuto la settimana scorsa con un’intervista al Giornale di Sicilia: “Il taglio di 367 posti letto, imposto dal decreto Balduzzi (all’epoca del governo di sinistra), dovuto alla riduzione della nostra popolazione, riguarda tendenzialmente quelli mai attivati – aveva detto -. Nessun servizio verrà ridotto”. E, ad ogni modo, “il parere della commissione Sanità non è vincolante”. Una dichiarazione che va in direzione opposta rispetto al buonsenso e all’opportunità politica del momento. Andare contro la maggioranza dei sindaci e dell’arco parlamentare dimostrerebbe, una volta di più, la scarsa leadership di un governatore che non fa più mistero di puntare al bis. Ma che in questo modo, e di questo passo, dovrebbe ringraziare i 70 deputati, ancorati saldamente alla poltrona, se riuscisse a chiudere una prima legislatura fallimentare e improduttiva.