Il centrodestra prova a ricomporre i cocci in vista della Finanziaria, ma nel frattempo, fuori da Palazzo dei Normanni, va avanti un lento processo d’erosione che, da qui a poche settimane, rischia di smembrare un pezzo della maggioranza. La Dc, a questo governo, non vorrebbe più garantire l’appoggio: a meno che Schifani non si ravveda, rettifichi le parole sul “partito-sistema” (pronunciate dopo l’inchiesta su Cuffaro) e riammetta in giunta i due assessori “appestati”. Ma anche Forza Italia e Fratelli d’Italia vivono un periodaccio: gli azzurri, come confermano le parole di Pier Silvio Berlusconi, si guardano intorno e cercano nuovi leader; mentre i patrioti, che di leader non ne hanno più (il partito in Sicilia è commissariato), guardano al futuro con profonda preoccupazione. Il terrore è deludere Giorgia, che nei sondaggi – almeno a livello nazionale – continua a viaggiare col vento in poppa. E che della zavorra siciliana non sa che farsene.

Il primo partito ai titoli di coda è quello che più di tutti vive una crisi d’identità a livello nazionale e (da tempo) territoriale. Pier Silvio Berlusconi, negli auguri di fine anno negli studi Mediaset, lo ha detto con chiarezza: serve un ricambio, serve un partito che non sia l’imbalsamazione del berlusconismo. Tajani è ringraziato – con stile, con misura – per aver tenuto la baracca in piedi dopo la morte del fondatore. Ma il futuro, ha spiegato l’AD di Mediaset, appartiene a “facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato”. Parole che preludono a un cambio di stagione. E che soprattutto coincidono con i movimenti sempre più dichiarati di Marina Berlusconi, pronta a benedire una corrente liberale e moderna incardinata attorno a Roberto Occhiuto.

Mentre a Roma il partito ridisegna sé stesso, in Sicilia tutto si sfalda. Il viaggio di Schifani nella Capitale, per blindare se stesso e la propria ricandidatura a Palazzo d’Orléans, non ha avuto esiti rassicuranti. Né ha portato buone nuove per Marcello Caruso, il coordinatore di FI e segretario particolare del presidente, che un pezzo della dirigenza azzurra considera alla stregua di un funzionario e niente più. Nel frattempo Tajani ha promosso Giorgio Mulè – capo riconosciuto della fronda anti-Schifani – a coordinatore della campagna referendaria sulla giustizia. Una mossa che pesa più di qualsiasi comunicato. Perché se Mulè sale, il presidente della Regione scivola. E attorno a Mulè, non a Schifani, si raduna la corrente che farà riferimento a Occhiuto e, indirettamente, a Marina.

Forza Italia, come se non bastasse, è spaccato anche sulla Finanziaria: alcuni (la maggior parte?) contestano al governo di aver tenuto un atteggiamento troppo permissivo nei confronti della Dc – i cui provvedimenti sono stati inclusi nella manovra – e di Cateno De Luca, che fino a prova contraria starebbe all’opposizione. Qualche franco tiratore all’orizzonte? Non sarebbe la prima volta… I forzisti delusi, ribattezzati “murati vivi”, hanno già impallinato parecchie norme per esprimere il proprio dissapore rispetto alle nomine di Dagnino (Economia) e Faraoni (Salute). Il copione potrebbe ripetersi.

Il secondo partito in apnea è la Dc. Formalmente dentro la maggioranza, sostanzialmente ai margini. Non invitata nel vertice di coalizione, unica formazione tagliata fuori dopo il ciclone giudiziario che ha travolto Cuffaro, continua però a far pesare la propria collocazione parlamentare. Stefano Cirillo ha scandito i tempi: piena lealtà fino all’approvazione della Finanziaria. Poi si aprirà un confronto vero. O rientrano in giunta Messina e Albano, o per la Dc sarà divorzio. È un ultimatum mascherato da disponibilità istituzionale. E Schifani lo sa. Per tenerli buoni, ha già distribuito una manciata di incarichi nel sottogoverno a esponenti che erano stati sospesi. Ma la partita vera non è quella: è il rientro degli assessori. Senza quel gesto, la Dc si ritroverebbe senza ruolo e senza garanzie, con un gruppo parlamentare imprevedibile e libero di muoversi. E il governatore, con una maggioranza già fragile, non può permettersi di perdere un altro pezzo.

Il terzo partito in crisi permanente è quello che dovrebbe essere l’architrave della coalizione: Fratelli d’Italia. Ma da mesi è un dossier giudiziario più che un soggetto politico: scandali, indagini, guerre interne, abbandoni, rivelazioni, vendette. L’inchiesta di Report ha sfondato una porta già spalancata: collane in cambio di finanziamenti, contributi agli amici, dirigenti accusati di corruzione, un presidente dell’Ars tirato dentro la tempesta per le “utilità” intorno al suo entourage, l’assessora Amata travolta da un sistema di cortesie e di richieste inopportune, e la fuga per evitare le telecamere come simbolo perfetto di una intera stagione politica.

La premier non può più fingere che sia un problema locale. Il commissario inviato da Roma, Luca Sbardella, doveva ricucire: invece ha prodotto un’unica conseguenza politicamente rilevante, l’ormai celebre voto segreto che ha messo in difficoltà Schifani sulla manovra-quater. Per il resto, ha lasciato macerie come le aveva trovate. E nel frattempo FdI ha perso pezzi: l’addio di Auteri verso la Dc è stato un toccasana; le esternazioni di Manlio Messina un terremoto permanente; le accuse ai “colonnelli” Lollobrigida e La Russa, l’ennesima prova di un partito allo sbando.

Giorgia Meloni per ora preferisce sgridare in privato, evitare lo scontro diretto, lasciar credere che la scelta del futuro candidato alla presidenza della Regione possa essere affidata alla coalizione. Ma il punto è un altro: FdI è diventato un problema politico e morale che minaccia l’intera tenuta della maggioranza. E finché Meloni non interverrà con un repulisti vero, la sensazione – drammaticamente percepita a Palazzo d’Orléans – è che la Regione resti ostaggio di un gruppo dirigente incapace di garantire morale e credibilità.