Dizionario del conflitto Russia-Ucraina. Dalla zeta alla zeta. Che è segno identitario. Scelto dai russi all’inizio forse per distinguere le colonne dei loro carrarmati convogliati verso l’Ucraina ed evitare, soprattutto dall’alto, il fuoco amico. Per riconoscere da lontano le divise dei soldati. Per tracciare muri e trincee nelle città divenute campi di battaglia.

Così dallo scorso 24 febbraio, quando i russi hanno dato inizio all’invasione dell’Ucraina, la zeta è diventata per l’Occidente filo-atlantista uno stigma da censurare, mentre in Russia e altrove un vessillo da sbandierare. Come ha fatto il giovane ginnasta russo Ivan Kuliak che a Doha in Qatar ha vinto il bronzo nella finale alle parallele della Coppa del mondo. Sfidando i provvedimenti disciplinari della Federazione internazionale di ginnastica, Kuliak è salito orgoglioso sul podio col segno Z sul petto, proprio accanto all’atleta ucraino vincitore dell’oro, Illia Kovtun.

Che poi la zeta è lettera latina. Inesistente nell’alfabeto russo. Il fonema corrispondente viene trascritto in cirillico con il simbolo 3, chiamato “ze”.

Comunque sia, l’esegesi della zeta è tema del momento. Analisti, filosofi, storici, politici, opinionisti. I maestri del pensiero occidentale si interrogano in cerca di una spiegazione univoca. Con gran risalto mediatico. Chissà se si pongono il problema di fare il gioco della propaganda russa che adesso sull’enigma zeta ci marcia per davvero. Perché sarà pure una delle nuove svastiche del Terzo millennio (ce ne sono tante in giro, anche quelle sbandierate dall’ucraino battaglione Azov), ma come diceva Oscar Wilde: “There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about”. Regola di base di qualsiasi potere: “parlate pure male di me, ma parlatene”.

E poi mica in tempi di guerra si può prendere per buona la motivazione data nell’immediato, a fine febbraio, dal ministero della Difesa russo che ha spiegato che la zeta disegnata sui carri armati russi si basa sull’espressione “Za pobedu” che si traduce: “Per la vittoria”. Un motto nazionalistico. Come “gloria all’Ucraina, gloria agli eroi” rispolverato sul versante ucraino. “Slava Ukraïni, herojam slava” era un saluto molto in voga cent’anni fa, sempre in chiave antirussa e nazionalista. Per ricordare che l’attuale conflitto Russia-Ucraina affonda in un abisso di ramificazioni.

Accreditata anche l’ipotesi che la zeta possa sottintendere “Zapad”, cioè ovest, la direttrice di marcia delle colonne russe verso l’Ucraina. Un po’ meno che possa alludere all’iniziale del cognome del presidente ucraino Zelensky, il nemico del momento. Anche se sembra che sia costume militare segnare il nome da abbattere sui missili destinati ai bombardamenti.

Inoltre, come ha ricordato per primo il quotidiano britannico The Indipendent, il logo quasi uguale, a volte inscatolato, identificava le forze armate russe già durante i violenti accadimenti del 2014 in Ucraina e in particolare in Crimea.

C’è un eccesso di zeta nella zona teatro di guerra. E la lettera, per come la vediamo in Occidente, è diventata simbolo del sostegno a Putin, alle pretese della Russia sull’Ucraina.

Così, dopo aver marchiato truppe e mezzi impegnati nel conflitto, la zeta è divenuta in Russia, ma anche altrove, un vessillo da esporre sul balcone, sull’auto, sulla T-shirt, sul risvolto della giacca, spesso in compagnia della bandiera russa. Alle fermate degli autobus e della metro e sui muri delle città russe sono comparsi cartelloni pubblicitari con zeta di enormi dimensioni formate dal “nastro di San Giorgio” con lo slogan: “non rinunciamo al nostro popolo”. Il popolo russofono o con passaporto russo che abita nella regione ucraina del Dombass.

Putin, che ha bandito termini come “guerra” e “invasione”, il cui uso riferito all’Ucraina è punibile col carcere fino a 15 anni, sostiene che “l’operazione militare speciale” in corso si sia resa necessaria per “denazificare” l’Ucraina e per rispondere alla richiesta di aiuto della popolazione russa perseguitata, la quale è maggioranza nelle due repubbliche autoproclamate di Donetsk e Luhansk.

Il che non ha impedito alcune proteste in Russia con manifestanti contro la guerra. Alcuni con cartelli con la parola “Zachem”, volutamente con zeta iniziale per chiedere al governo: “A che pro?”.

Intanto il ministro degli Esteri ucraino Kuleba ha invitato l’Occidente a “criminalizzare l’uso del simbolo Z”. Perché significa “crimini di guerra russi, città bombardate, migliaia di ucraini assassinati”. Né gli piace il nastro di San Giorgio, simbolo anch’esso della “operazione speciale” di Putin, sebbene con impatto mediatico ridotto. Il nastro è memoria in Russia. Della più alta onorificenza militare zarista, riservata agli eroi. E soprattutto della leggenda del santo cavaliere che, nella lotta tra bene e male, sconfisse il drago.

Un colpo di genio identitario della Russia post glasnost e post perestrojka. L’invenzione della tradizione. Fino a farne il simbolo nel 2005 e nel 2015, anniversari della vittoria sul nazismo nel 1945, della “superiorità spirituale della Russia”. Qualcosa su cui Putin ha sempre insistito, ricordando le vittime russe della Seconda guerra mondiale, oltre venticinque milioni. Durante una parata disse: “Noi abbiamo un immenso diritto morale, quello di difendere le nostre posizioni in modo deciso e durevole. Perché è il nostro Paese che ha subito il peggio dell’offensiva nazista e ha offerto la libertà ai popoli del mondo intero”.

Il fatto è che il nastro di San Giorgio è riapparso in Ucraina già dal 2014 come metafora della rivolta contro Kiev dei territori del Donbass. E che la più recente interpretazione della zeta sbandierata dai russi è legata a un antico simbolo cristiano ortodosso in uso tra i popoli slavi, tre linee come la trinità a congiungere terra e cielo.

Nell’Occidente atlantista sono scattate le reazioni. Alcune politiche. Repubblica Ceca, Lituania e Germania hanno messa al bando la zeta. Altre all’insegna del “politicamente corretto”. La compagnia d’assicurazioni svizzera Zurich, oltre centocinquanta anni di storia, ha cambiato temporaneamente il logo.

E perfino un brand di lusso come Vuitton ha subito il contraccolpo. Le immagini pubblicate sui social di nuovi accessori con la rappresentazione stilizzata delle iniziali aziendali che ricordano la Z, hanno provocato polemiche e commenti ostili tra opposte fazioni.

Un problema per tutti i marchi che iniziano con zeta, e sono tanti in Occidente. O che commercializzano come la Samsung modelli Zeta.

Chissà come funziona in matematica dove la zeta può indicare un’incognita, una variabile, una coordinata, un’indeterminata. Giusto per ricordare che in questa guerra ce n’è parecchie. E soprattutto in fisica dove la zeta spesso indica il numero atomico. Che già sillabare a-to-mi-co dovrebbe far riflettere.

In primis i protagonisti del conflitto. Tutti uomini Zeta. A cominciare da Zelensky, attore di professione, tanto esperto in comunicazione televisiva da guerreggiare la sua personale guerra in tv.  E certo c’è la pietà per le vittime inermi che scorrono nelle immagini. Per i bambini, le donne, i vecchi. Offesi, violati, uccisi, rimasti senza nulla. La tragedia della guerra. Ma Zelensky, perfetto nel suo ruolo, induce qualche dubbio. In un’invasione annunciata, cosa avrebbe potuto fare per non mandare il suo popolo al massacro? E come è potuto arrivare di botto alla politica nel 2019 quando è stato eletto a furor di popolo presidente dell’Ucraina? Solo un successo sull’onda lunga di una serie televisiva in cui interpretava uno sconosciuto professore di Kiev che diventava, appunto, presidente della Repubblica? Sarebbe un caso da manuale. Che neppure il sociologo francese Baudrillard avrebbe potuto spiegare meglio la teoria della precessione dei modelli.

Poi c’è l’invasore. Il novello zar di tutte le Russie che da tempo hanno cessato di essere comuniste senza per questo diventare propriamente democratiche. E’ il callido Putin, ex militare, ex Kgb, presidente della Federazione dal 2012, al quarto mandato non consecutivo. La sua storia personale si intreccia con la storia del suo Paese, compreso il crollo dell’Urss. Ha scalato tutte le tappe del potere. Della sua infanzia povera dice che “la strada a Leningrado mi ha insegnato una lezione: se la zuffa è inevitabile, colpisci per primo”. Allo stadio Luzhniki di Mosca giorni fa, davanti a una folla oceanica che lo osannava, bandiere russe e vessilli con la Z garruli al vento, Putin ha citato perfino il Vangelo.

Infine c’è lo zio Sam, lo spirito degli Stati Uniti d’America incline a diffondere per il mondo i benefici del proprio modello politico e, prima ancora, esistenziale. The American way of life. Che nel formato esportazione ha perso un po’ di smalto già ai tempi di Obama, il cui premio Nobel per la Pace a inizio mandato, forse dato sulla fiducia, si rivelò nel prosieguo più o meno un ossimoro.

Oggi lo zio Sam, rappresentato dal presidente Biden, che di Obama fu vice, soffia sul fuoco acceso nel fronte orientale d’Europa. Perché del conflitto Russia-Ucraina conosce il contesto e i dettagli minimi. Li ha seguiti “driving from behind” attraverso la vicesegretaria di Stato Victoria Nuland presente a Kiev durante i tragici accadimenti del 2014. Forse anche attraverso gli affari del figlio Hunter.

Non sente ragioni diplomatiche, Biden. Che non perde occasione per investire Putin di epiteti perfino coloriti in un crescendo ad alto rischio per il mondo intero. Con l’Europa in prima linea. Al momento a subire gli effetti delle sanzioni comminate alla Russia.  Altro che “America first”. Quello era lo slogan di Trump.

E noi qui a fidarci di uno che ha abbandonato l’Afghanistan in braghe di tela. All’apparenza rinunciando al ruolo di “gendarme del mondo”. Tanto nell’Europa della Nato ci sono sparsi un po’ ovunque governanti e amministratori a volte zuzzurelloni. E uno si domanda se sanno quel che dicono, se sono zucconi o se è un’innata vocazione ad essere zerbini.

Deve essere la parabola della politica declinata nelle sue infinite furbizie e prevaricazioni. Come ha intuito il regista Costa-Gavras nel film simbolo del regime, di qualsiasi regime. Il film “Z – L’orgia del potere” del 1969, girato in Grecia quando c’erano ancora i colonnelli. Pluripremiato, a Cannes e negli Usa con l’Oscar, nei titoli di testa c’è scritto: “Ogni somiglianza con avvenimenti reali, persone morte o vive non è casuale. E’ volontaria”. Poi, nei titoli di coda, un lungo elenco di tutto ciò che i militari hanno proibito “contemporaneamente” agli eventi narrati, l’assassinio nel 1963 da parte di estremisti di destra del politico greco e attivista per la pace Lambrakis.

Un elenco che comprende: “Sofocle, Tolstoj, Mark Twain, Euripide, spezzare i bicchieri alla russa, Trockij, scioperare, la libertà sindacale, Eschilo, Aristofane, Ionesco, Sartre, i Beatles, dire che Socrate era omosessuale, l’ordine degli avvocati, imparare il russo, imparare il bulgaro, la libertà di stampa, la sociologia, Beckett, Cechov, Gorkij e tutti i russi, la musica moderna, la matematica moderna, i movimenti per la pace”.

Tra i russi proibiti c’è pure Dostoevskij, deve essere una fissazione e c’è la lettera Z che vuol dire “è vivo” in greco antico. L’alfabeto antesignano dei caratteri cirillici.