Renato Schifani passa più tempo a strigliare che a governare. Convoca riunioni, s’incavola, minaccia provvedimenti. È diventata la sua cifra politica: richiamare gli altri alle proprie responsabilità senza mai assumersi le sue. La Regione arranca, e il presidente reagisce come può: cioè scaricando la colpa sugli altri, additando le “retrovie” di responsabilità che, forse, dovrebbe assumersi la politica. E così, qualsiasi tentativo riparatore rischia di trasformarsi in un teatrino utile a depistare i giornalisti, a cancellare l’onta delle continue umiliazioni subite in aula, a rilanciare un’azione di governo ormai morta.

L’ultimo tentativo, in ordine di tempo, è andato in scena a Palazzo d’Orléans. Schifani, assistito dall’esperta tuttologa Simona Vicari, ha richiamato i manager delle Asp per “verificare lo stato di attuazione” della legge regionale sulle dipendenze, approvata a settembre ‘24 e ancora ferma a metà del guado. Si tratta della medesima legge perorata dall’Arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che ebbe modo di lamentarsi con il governatore per averla lasciata marcire un anno intero prima di essere discussa in parlamento. Acqua passata. O forse no.

«Far funzionare ogni singolo ingranaggio del sistema tenendo a mente che il nostro obiettivo prioritario è quello di salvare dalle droghe quanti più giovani possibile», ha detto il presidente della Regione al termine dell’incontro. E ha aggiunto: «Abbiamo stanziato le risorse necessarie per realizzare quanto previsto dalla norma e, seppur sia risultata molto farraginosa nella sua applicazione, ci aspettiamo che tutti lavorino concretamente e velocemente per realizzare quella rete sanitaria, sociale ed educativa che abbiamo immaginato per combattere un fenomeno che, purtroppo, interessa troppi giovani e preoccupa tanti genitori siciliani». Fin qui, oltre alla doverosa sensibilizzazione negli ambienti scolastici, si è provveduto alla realizzazione dei primi centri ad alta soglia e all’attivazione delle prime unità mobili nei capoluoghi di provincia della Sicilia. Della serie: poteva andare meglio.

Schifani, così, ha annunciato che il tavolo sarà convocato “ogni trenta giorni”. Ma la verità è che manca una regia politica. Le leggi si fanno, ma non si applicano; gli obiettivi si annunciano, ma non si raggiungono. Lo stesso copione si è ripetuto con il Pnrr. La Cabina di regia ha certificato una spesa effettiva del 27,92% e Schifani ha reagito con una nota formale a 14 dirigenti generali e a 9 assessori richiamando ciascuno, per la propria competenza, “alle rispettive responsabilità e chiedendo di imprimere una netta accelerazione sull’avanzamento della spesa e sulla rendicontazione dei finanziamenti”. Non è la prima volta. Già a marzo aveva convocato giunta e burocrazia per affrontare le principali criticità: “L’eventuale mancato adempimento degli obblighi connessi alla realizzazione degli investimenti – disse ai tempi – sarà rilevante ai fini della valutazione dirigenziale e per l’eventuale risoluzione del rapporto di lavoro”.

Da allora, poco è cambiato. Le procedure di spesa e rendicontazione arrancano, e Palazzo d’Orléans continua a funzionare più come un ufficio reclami che come una sede di governo. Anche nella nota del 17 ottobre il governatore si è visto costretto ad alzare la voce, avvertendo che «l’eventuale mancato rispetto degli adempimenti sarà utilizzato ai fini della valutazione dei dirigenti responsabili» e potrebbe portare «all’avvio delle procedure di contestazione, propedeutiche all’eventuale revoca dell’incarico». Ci risiamo.

Per uno strano scherzo del destino, si tratta dello stesso avviso che pende sulla testa dei Direttori generali delle Asp i quali, oltre a dar seguito alla legge sulle dipendenze, dovrebbero anche smaltire le liste d’attesa. Un requisito essenziale per conservare la poltrona. Eppure, poche settimane fa, è stata la Regione a venire incontro ai manager: disponendo che le prestazioni in regime d’urgenza (o le cosiddette “brevi”, da erogare entro 10 giorni) venissero “espunte” dalle agende di prenotazione e trattate separatamente, attraverso fast-track dedicate. Le liste d’attesa si sono sgonfiate all’improvviso e i direttori generali hanno potuto tirare un bel sospiro di sollievo: rimarranno in sella, evitando al governo e ai partiti l’ennesima figuraccia (è la politica ad averli scelti accuratamente).

Schifani, del resto, non striglia mai chi davvero potrebbe cambiare le cose: i partiti e i loro segretari. Nemmeno dopo il caos all’Ars di venti giorni fa, quando il voto segreto ha dilaniato la maggioranza durante l’approvazione della manovra-quater. Schifani ha ignorato la realtà, come se non lo riguardasse. Non una parola, non una presa di posizione. Tranne un disperato tentativo di rinsaldare la coalizione dando la colpa al “voto segreto”, definito un “vulnus per la democrazia”. Perché se provasse a richiamare all’ordine Fratelli d’Italia, come avrebbe potuto (e dovuto?) dopo l’aut aut del commissario Sbardella sulla proroga di Iacolino, il governo si sfalderebbe in un pomeriggio.

Così, la politica scompare e resta solo l’amministrazione, lenta e inceppata. Schifani governa a colpi di note e ammonimenti, senza mai toccare la causa vera dei problemi. Convoca i manager, ma non gli alleati di governo. Diffida i dirigenti, ma non ammonisce gli assessori (altrimenti la Amata sai che fine…). E mentre la Regione si muove a fatica, lui continua a sostenerla a braccia. Perché Palazzo d’Orléans è ormai una Rolls-Royce con il motore di una Cinquecento: brilla in vetrina, ma basta girare la chiave perché inizi a tossire. E Schifani, al volante, non guida: spinge.