Persino l’idea di tornare al governo del Paese non ha lenito le ferite del Pd. L’accordo con i Cinque Stelle, a lungo insultati, rinnegati e derisi, ha sconvolto il quadro nazionale: così è accaduto che Carlo Calenda, fresco europarlamentare, ma da sempre su posizioni distanti e distinte dai leader del momento, abbia scelto di andarsene. Ma anche in Sicilia, dove l’avvento di Nicola Zingaretti aveva prodotto un effetto devastante – il commissariamento del partito – il clima non si è mai rasserenato. Sul sostegno a un governo giallorosso (assieme a Di Maio, chi l’avrebbe mai detto) si potrebbero scrivere trattati. C’è chi tifa e chi protesta. Chi parte all’attacco e chi gioca in difesa. Chi sta muto e chi, come Giuseppe Lupo, capogruppo “dem” all’Assemblea regionale, richiama all’unità, questa sconosciuta: “Chiedo nuovamente a Faraone di revocare l’autosospensione dal partito – ha dichiarato un paio di giorni fa a Live Sicilia -. E a Cracolici di seguire il suo stesso consiglio di non essere mai nemici della contentezza”. Ci ha provato. Onore al merito.

Ma il dato di fatto, qui come altrove, è che Matteo Renzi – ancor di più alla luce della sua “risalita” – continua a dividere. A tal punto da aver creato tremolii e malumori in quella che era divenuta la nuova maggioranza interna. Di marca zingarettiana. Quella che aveva accolto con un sospiro di sollievo l’arrivo del brindisino Alberto Losacco – il commissario Losacco – e che, di fronte alla paventata riunificazione del partito, anziché esultare si deprime. Antonello Cracolici, uno degli integralisti, che non ha mai sopportato la creazione di “un Pd fuori dal Pd”, ha approfittato della crisi di governo per tirare qualche schiaffo a Faraone: “E’ un replicante senza rossore” ha asserito l’ex assessore all’Agricoltura, sottolineando come era stato lo stesso Faraone a sostenere la tesi della sua cacciata perché considerato un elemento di disturbo a un patto fra Pd e Movimento 5 Stelle. Mentre, nel giro di pochi giorni, e per stare appresso a Renzi, l’ex segretario regionale si è trasformato nel primo sostenitore del “governo della novità” guidato da Giuseppe Conte.

Ma qui è inutile cercare di risalire alle cause, alle prove di coerenza, ai cambi repentini di idea. A cosa è meglio e a cosa è peggio. Il Partito Democratico, quello siciliano in modo particolare, resta un classico esempio di tafazzismo. Un partito che sa farsi male anche quando non c’è bisogno. Losacco non è ancora riuscito a metterci mano. Il clima, fuori, è incandescente. Ma visti i trascorsi del Pd negli ultimi cinque anni – si è passati dal sodalizio con Crocetta al fallimento dell’esperienza di governo, dal peggior risultato elettorale di sempre (Politiche 2018) alle macerie del congresso – ci sarà un bel lavoro da fare. Per prima cosa, Losacco vorrebbe convincere Davide Faraone a riprendere la tessera, restituita polemicamente all’indomani della destituzione; poi, organizzare il tesseramento e i congressi provinciali; infine, magari, confinare i renziani in un angolo. Una volta per tutte. E’ sempre forte il timore che, riappropriatisi di legittimità e rappresentanza, possano provocare spaccature.

Ma in Sicilia la scissione già esiste. E’ nei fatti. L’innesco è stata l’esperienza disastrosa del governo di Rosario Crocetta, che qualche giorno fa, tuttavia, si è ancora definito in una intervista esponente del Partito Democratico (“Anche se da dentro il Pd mi attaccavano ogni giorno”). E poi l’odio e il rancore sono cresciuti settimana dopo settimana, mese dopo mese, fino alla baraonda che alla vigilia di Natale determinò il ritiro di Teresa Piccione, la cancellazione dei gazebo, e l’autoproclamazione di Faraone.

Uno dei motivi di quella rottura fu la presenza di Totò Cardinale e di Sicilia Futura, una costola del Pd rottamatore di Renzi, ma un’entità “diversa” rispetto agli schemi di via Bentivegna, che i piccioniani non avrebbero voluto far partecipare alle primarie (come, invece, garantiva il regolamento). Ma l’episodio che fece saltare il banco, alla vigilia delle Europee, fu la mancata presenza in lista della renziana Valeria Sudano, che in caso di elezione avrebbe liberato un posto in Parlamento per Giuseppe Picciolo, segretario del movimento.

Cardinale non la prese bene. La figlia, già osteggiata un anno e mezzo fa, alla presentazione delle liste per le Politiche, uscì dal gruppo dem alla Camera aderendo al Misto. E Sicilia Futura – con due deputati all’Ars – cominciò a trattare e votare con Forza Italia, pur con alcuni distinguo (in primis l’onorevole D’Agostino). Forse è il destino, ma anche stavolta Sicilia Futura si trova dalla parte sbagliata della barricata. Avrebbe potuto contare qualcosa con il ritorno del profeta Matteo, ma se ne sta coi forzisti, in attesa prima o poi di pesarsi alle urne, dato che di assessorati – al momento – nemmeno l’ombra. O nella vana speranza di ridare fiato a quel progetto di Democrazia Cristiana “rivisitata”, di centrismo responsabile, che il suo fondatore Totò Cardinale va predicando da mesi, finendo sempre per essere superato dai fatti.

Al di là dell’iconica scena di un partito che non vince mai le elezioni e, chissà come, si ritrova a guidare il Paese, l’anima a pezzi del Pd siciliano non si discute. Prima delle vacanze all’Ars, oltre alle frange estreme di Faraone da un lato e il tandem Lupo-Cracolici dall’altra, si era formato un terzo polo, quello dei pontieri di Nello Dipasquale e Baldo Gucciardi. Galleggia in mezzo anche l’ex segretario Raciti con la sua nuova creatura ribattezzata “New Deal”; ci sarebbero i “partigiani dem” di Antonio Rubino, che all’ultimo giro hanno sostenuto Faraone; e poi c’è Luca Sammartino, un profilo da non trascurare. E’ quello che ha preso più voti alle ultime Regionali, certamente il più futuribile. E’ apparso poco interessato alle dinamiche interne del Pd, ha criticato Zingaretti, ha aperto a Micciché con la proposta di un campo moderato, che allo stato attuale appare sempre più lontano. Ha esternato su Facebook il suo disgusto per Matteo Salvini. Questo sì, un elemento che accomuna tutti. Strano a dirsi, ma l’altro è il sodalizio coi Cinque Stelle. Che sembra aver rimesso tutti sulla stessa barca. Fino al prossimo contrasto interno.