Dopo essere tornato un partito di governo, il Pd, quasi in automatico, ha abbandonato la lotta. Schiantandosi sugli schemi liquidi della politica. E rinnegando la propria identità e la propria storia. A Roma, dove il Movimento 5 Stelle ha sparigliato le carte della democrazia, e andrà avanti nell’intento col referendum di domenica, Zingaretti ha deciso di piegarsi alle iniziative populiste e manettare dei grillini, finendo per abdicare pure sul taglio dei parlamentari. Durante l’iter di approvazione della riforma, fra Camera e Senato, i deputati “dem” avevano votato “no” per tre volte, prima di cambiare idea e ridursi a votare “sì” in cambio di correttivi che non sono mai arrivati. Per l’appuntamento di domenica, nonostante i distinguo dell’ultima direzione, proseguiranno su questa linea: lo scopo è preservare il governo. Conte e Zingaretti, anche nel caso di una batosta alle Regionali (che per il Pd significherebbe perdere una fra la Toscana e la Puglia, o addirittura entrambe) si sono accordati per rimanere in sella. Attaccati alla poltrona. Una forma di sadismo che nasconde, da parte del secondo, un malumore profondo e una difficoltà, ormai accentuata, a mostrarsi in pubblico. Non sarà la promessa di una riforma elettorale a fermare questo declino inesorabile.

Gli indizi di un partito in disarmo – che ha perso verve sulla giustizia, che non convince sui temi del lavoro, che non parla più d’ambiente, e che lo stesso Roberto Saviano ha definito “vapore acqueo” per l’incapacità di assumere una posizione – sono giunti fino in Sicilia, a Palermo. Dove nonostante la nuova guida, autorevole e condivisa, di Anthony Barbagallo, il Pd è ancora alla ricerca di una dimensione propria. Non si è più risollevato dagli anni di Crocetta e troppo spesso finisce ai margini del dibattito. A partire dalle macerie di Palermo, che l’hanno visto nel ruolo di semplice spettatore.

Diciannove consiglieri comunali d’opposizione, dopo aver notato molte crepe nel centrosinistra e altrettanti scempi fuori – dalla monnezza sui marciapiedi, passando per le piste ciclabili impazzite e le bare accatastate ai Rotoli – hanno deciso di proporre una mozione di sfiducia a Orlando e voltare pagina. Il Pd, però, si è schierato dalla parte del sindaco, scegliendo di blindarlo  alla vigilia della discussione: “La storia non si processa ma si valuta – scrivevano nella nota i due consiglieri, Rosario Arcoleo e Milena Gentile -. La città di Palermo oggi è migliore di quella di 30 anni fa”.

Il gruppo del Partito Democratico, che a febbraio è stato tramortito dall’inchiesta sull’edilizia e dall’arresto del consigliere Giovanni Lo Cascio, si è ridotto ad appena due unità dopo la scalata di Italia Viva di Matteo Renzi a Sala delle Lapidi. E, in occasione del dibattito sulla sfiducia, si è limitato a osservare che “siamo nel guado” e serve “una svolta immediata”. Forse con l’autoconservazione della poltrona? Il minimo comune denominatore di queste esperienze di governo – a livello locale e nazionale – è essere risucchiati nell’orbita del potere, e non accorgersi del resto. Eppure, i rappresentanti palermitani del Pd ritengono che “i problemi della città in questi anni non si sono risolti” bensì “aggravati”. Gestione dei rifiuti, cimiteri, trasporto pubblico, devono “essere affrontati senza perdere tempo in operazioni, solo di facciata, di opposizione al sindaco”. Orlando, in pratica, sarebbe la risposta migliore a ciò che Orlando, con i partiti che lo sostengono, non è più riuscito ad essere.

Forse perché è impensabile spedire a casa un sindaco con 35 anni d’esperienza. Per di più se è del tuo stesso partito. Anche se il “professore”, per la verità, quella tessera presa nel 2018, alla vigilia delle elezioni Politiche che hanno visto la discesa in campo del fido Fabio Giambrone (non eletto alla Camera), l’ha maltrattata in tutti i modi. Ad esempio, facendo perdere le proprie tracce, lo scorso anno, nel periodo più critico della storia recente del Pd in Sicilia. Era il partito dei Faraone e della Piccione, che finirono in tribunale per le storie tese del congresso. E del pugliese Alberto Losacco, a cui è stata affidata una lunga fase di transizione e commissariamento. La proclamazione di Anthony Barbagallo, dopo il congresso di Morgantina dello scorso luglio, ha segnato l’inizio della ricostruzione. E, forse, la fine di un correntismo sfrenato. Ma, per la verità, anche all’Assemblea regionale l’operato del gruppo rischia di non lasciare il segno.

Nessuno, ad esempio, ha sollevato obiezioni rispetto alla relazione dell’assessore Armao sulla Finanziaria di cartone. Totale arrendevolezza, neppure un comunicato stampa. Il vicegovernatore, di fatto, ha confermato che buona parte del bottino, per circa un miliardo, non è spendibile in tempi brevi. Ma nessuno, dai banchi del Pd, ha alzato il ditino per ribadire quanto sia deficitaria questa gestione (solo Nello Dipasquale, per la verità, che ha contestato la formula del click day per l’erogazione delle risorse alle imprese). L’ha detto pure Miccichè: “Mi tocca fare ragionamenti d’opposizione. Forse perché abbiamo un’opposizione scadente”. In effetti gli unici a farsi sentire sono stati i grillini, esibendo cartelli polemici. I “dem”, invece, non hanno partecipato nemmeno al folclore. Sono rimasti in un angolo dopo aver gridato ai quattro venti, per tutta l’estate, che di questa Finanziaria spot non avremmo visto il buco d’un quattrino. Solo il capogruppo, Giuseppe Lupo, ha detto alla stampa che il piano Covid Sicilia presentato ieri da Musumeci “arriva fuori tempo massimo”.

La posizione defilata del Partito Democratico, per la verità, era emersa pure dal dibattito sulla riforma urbanistica, prima delle ferie: il partito (che vede ridurre il proprio contingente da 8 a 7 deputati per l’addio di De Domenico) era stato l’unico ad astenersi sulla votazione finale.

Anthony Barbagallo, in questa fase, sta cercando di modellare la sua creatura: dall’interno, esautorando le vecchie logiche dei padroni delle tessere e imponendo una segreteria fatta di giovani. E dall’esterno, coltivando la visione del “campo largo”, in un abbraccio necessario con il Movimento 5 Stelle (che all’Ars, per un periodo, è stato anche produttivo). Senza disprezzare gli alleati renziani, che restano tali soprattutto nel Catanese. Inutile negare, però, come gli esperimenti più importanti arrivino da due città come Termini e Barcellona, chiamate al voto per le Amministrative del prossimo 4-5 ottobre. Sono gli unici due comuni, per il momento, dove i simboli di Pd e Cinque Stelle sono affiancati sulla scheda elettorale. A livello locale, grazie al volto dei candidati, sarà più facile non sovrapporli. Se si dovesse scegliere in base al voto d’opinione, invece, sarebbe impossibile cogliere le differenze. Pd e Cinque Stelle sono diventati terribilmente simili. Hanno imparato a piacersi con diffidenza. Gli ex comunisti, fra l’altro, senza nemmeno consultare Rousseau. Così è, se vi pare.