La chiamano “manovra di fine anno”, ma più che una legge di Stabilità sembra un test di resistenza. Schifani si prepara a riportare all’Ars una Finanziaria carica di contraddizioni, in cui tornano, una dopo l’altra, molte delle norme bocciate nei mesi scorsi. È una sorta di copione che si ripete e riflette il carattere del presidente, ma anche l’incapacità del centrodestra di trovare una sintesi. Perché se la giunta ha approvato il testo all’unanimità, il fronte politico è tutt’altro che compatto.

Il “giovedì nero” all’Ars, che ha prodotto l’approvazione della manovra-quater (con la bocciatura contestuale di un terzo delle norme) e la fronda di Fratelli d’Italia, ha lasciato ferite aperte. E la richiesta dei “patrioti” di rimuovere Salvatore Iacolino dal dipartimento Pianificazione strategica dell’assessorato alla Salute – un’ossessione che riemerge a ogni vertice – è il simbolo di una diffidenza mai guarita. La nuova Finanziaria rischia di riaccendere tutto: sospetti, gelosie e scontri di potere.

Al centro delle polemiche c’è soprattutto il bonus edilizio, una misura che mette sul piatto 45 milioni nel triennio, finanziati dall’Irfis, per concedere un contributo pari al 50 per cento delle spese ammissibili a chi effettua lavori di consolidamento strutturale, riqualificazione energetica, rifacimento delle facciate e installazione di impianti da fonti rinnovabili. L’obiettivo, dichiarato, è sostenere il comparto dell’edilizia dopo la fine dell’onda lunga del Superbonus nazionale. Ma l’effetto è stato opposto: in Fratelli d’Italia e Mpa qualcuno parla apertamente di “un Superbonus travestito da misura regionale”, un errore politico che mette in imbarazzo la coalizione, proprio mentre il governo Meloni a Roma ha imboccato la linea opposta. La deriva contiana e assistenzialista di Schifani & Co. è rappresentata plasticamente dal contributo di solidarietà per le famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà: anche questa una misura, rifinanziata per 10 milioni, invisa a FdI.

A complicare ulteriormente il quadro ci sono altri vecchi cavalli di battaglia ripescati, come la legge sull’editoria, naufragata nella scorsa manovra-quater, che torna in una versione rivista ma ancora oggetto di confronto tra i partiti (ci sono in palio 3 milioni). Servirà per garantire il pluralismo dell’informazione o per continuare a sovvenzionare i soliti pagnottisti che hanno già raschiato il barile dei fondi pubblici grazie agli affidamenti diretti? C’è poi il South working, oggi ribattezzato Sicily working, che prevede un contributo a fondo perduto fino a 30 mila euro, su un plafond complessivo di 20 milioni, per le imprese che assumono lavoratori a tempo indeterminato o stabilizzano precari, consentendo loro di lavorare da remoto in Sicilia.

E ancora, la norma sull’autonoleggio voluta dall’assessore alle Attività produttive Edy Tamajo e cara all’imprenditore Tommaso Dragotto, che introduce una riduzione del 25 per cento della tassa automobilistica per le aziende con più di dieci veicoli. Un provvedimento che, secondo alcuni alleati, favorisce un settore ben preciso e rischia di sollevare nuove accuse di clientelismo. Trova spazio pure una mancetta da 1,2 milioni per far scorrere la graduatoria di un vecchio concorso per assumere 180 guardie forestali e un cospicuo contributo da 6,1 milioni per l’abbattimento delle liste d’attesa nella sanità attraverso il potenziamento del SovraCup, tentativo già abortito in passato perché tra le righe della norma facevano capolino ipotesi di nuove assunzioni non proprio limpide.

È un mosaico di norme che raccontano più il bisogno di Schifani di riaffermarsi, dopo mesi di tensioni e sconfitte parlamentari, che una reale visione economica. Il risultato è una manovra di governo che divide la maggioranza stessa, costringendo i partiti a posizionarsi ogni volta sul filo tra lealismo e dissenso. E che alletta i franchi tiratori: una specie di figura mitologica che neppure l’unità d’intenti professata in queste settimane dai partiti di maggioranza è riuscita ad abolire. Di riforme, infatti, si tornerà a parlare il prossimo inverno, sempre che la sessione di Bilancio non provochi un altro sconquasso.

Oggi è previsto un nuovo vertice di maggioranza per tentare di ricucire le fratture prima dell’arrivo del testo all’Ars, previsto per mercoledì 5 novembre con il parere del revisore dei conti. Il calendario, già serrato, prevede l’avvio dell’esame nelle commissioni di merito giovedì 6, la conclusione entro domenica 16 e poi il passaggio alla Commissione Bilancio, che diventerà il campo di battaglia per i successivi venti giorni.

La sensazione, tra i corridoi di Palazzo dei Normanni, è che questa legge nasca già con il seme del conflitto. Schifani, da parte sua, continua a mostrarsi fiducioso. Parla di una manovra che sostiene famiglie e imprese, ma evita accuratamente di citare i passaggi più controversi. In realtà, l’impressione è che la Finanziaria 2026 sia il frutto di un compromesso instabile, una tregua armata tra forze che guardano in direzioni diverse: Fratelli d’Italia punta a riaffermare la propria leadership politica, l’Mpa a tenere viva la propria autonomia negoziale, e Forza Italia, più volte umiliata dalle scelte del governatore (specie in sede di nomina degli assessori), oggi sembra intenzionata a ribaltare un rapporto di forze – specie nei confronti dei patrioti – che l’ha vista finora soccombere.

Tutto questo mentre all’Ars si prepara l’ennesima resa dei conti. Perché in fondo, più che un bilancio di governo, questa Finanziaria somiglia a una radiografia della crisi del centrodestra siciliano: un’alleanza tenuta insieme da equilibri fragili e da un presidente che, pur di non arretrare, ripropone le stesse leggi che l’hanno già fatto inciampare.