“Da luglio siamo in cerca di risposte che nessuno ci dà. C’è un problema di gestione complessiva di questa pandemia. I provvedimenti a macchia di leopardo hanno penalizzato alcuni settori a dispetto di altri”. Dalle parole di Alessandro Albanese, vicepresidente vicario di Sicindustria, emerge tutto il malumore dei rappresentanti delle imprese, che soprattutto in Sicilia si scontrano con numeri drammatici. Uno studio della Cgil parla di 67 mila persone precipitate in Cassa integrazione, che hanno dovuto rinunciare a 5.900 euro di guadagni netti; ma anche di 398 milioni di redditi andati in fumo; di 72 crisi aziendali tuttora aperte. E di 33 mila posti di lavoro a rischio, qualora dal 31 marzo venissero sbloccati i licenziamenti. La situazione è drammatica per lavoratori e imprese. La politica, però, sa solo chiudere: “Eppure – esordisce Albanese, che è anche presidente della Camera di Commercio di Palermo ed Enna – il luogo del contagio è la strada, coi suoi assembramenti. Non le attività economiche, che hanno già dimostrato di saper vigilare sull’afflusso delle persone”.

Cosa è mancato?

“Ci sono state le chiusure, non i controlli. Così la gente si è riversata comunque per strada. Detto questo, il governo è latitante. Hanno delegato a una sola persona, parlo del commissario Arcuri, troppi aspetti della pandemia. E al di là dello sforzo eccezionale del Ministro della Salute, i fallimenti sono tanti. Sui vaccini, ad esempio: non è solo colpa del governo, ma affidare tutto all’Europa si è rivelato un errore in senso assoluto. Se da un lato è giusto che la Commissione europea si occupi dell’acquisto delle dosi, dall’altro qualcuno avrebbe dovuto esigere il rispetto dei contratti”.

La Sicilia ha gli anticorpi per resistere ancora a lungo a questa crisi economica?

“Assolutamente no. Già partivamo con sette punti di Pil in meno rispetto al resto del Paese e con un sistema economico più fragile. Inoltre, a differenza di altre regioni, non siamo nemmeno supportati dall’export. Siamo in grandissima difficoltà”.

Non bastano i ristori dello Stato?

“Si straparla di sostegno alle imprese, ma è un sostegno falso. Diecimila euro per un’azienda che fattura dieci milioni sono niente. Inoltre, anche la garanzia di medio credito si è rivelata un bluff, perché riferita al rating e alla bancabilità dell’azienda che, man mano, è andata a scendere. Il risultato è che molte imprese si sono dovute indebitare a cinque anni, e questo renderà molto complicata la ripresa”.

Cosa bisognava fare?

“Non avevamo chiesto soldi a fondo perduto, bensì la possibilità di indebitarci a quindici anni. Con delle cifre che avrebbero consentito di resistere al dopo pandemia, ma anche di rilanciare l’attività di impresa. Questa richiesta, come le altre, è stata disattesa”.

Si metta un attimo dalla parte dei lavoratori. La data del 31 marzo è sottolineata in rosso. Perché è in quella data che le aziende potrebbero tornare a licenziare, incidendo fortemente sull’occupazione e sulla vita di molte persone.

“Noi abbiamo accettato il blocco dei licenziamenti in cambio di una cassa integrazione Covid. Abbiamo chiesto, inoltre, di mettere al centro il lavoratore, anziché il lavoro, spostandoci da un’impostazione più ideologica a una più pratica. Promuovendo delle politiche di sostegno che siano a carico dello Stato, senza appesantire i conti delle imprese. Se un’impresa rischia di fallire è costretta a licenziare. Ci sarà certamente una recrudescenza dei licenziamenti: non dovuta al piacere di licenziare, ma di salvare il progetto stesso d’impresa”.

Il Recovery Plan, così com’è stato concepito, rischia di aumentare il gap fra il Mezzogiorno e le altre regioni d’Italia?

“Sì. E le fornisco un dato su tutti: se ci dovessimo basare sulla prima stesura da 17 paginette – l’unica che fin qui abbiamo avuto modo di leggere – la Sicilia avrebbe accesso a 5 miliardi sui 220 a disposizione. Questo perché non abbiamo abbastanza progetti cantierabili…. Il Recovery poteva e potrebbe essere la salvezza del sistema economico, sanitario e sociale dell’Italia. Così, invece, rischia di non soddisfare abbastanza le esigenze del Paese. Bisognerebbe ribaltare la prospettiva”.

In che modo?

“Prima di dire ‘cosa faccio’, bisognerebbe stabilire ‘come lo faccio’. Occorre una riforma immediata del Codice degli appalti, del Codice della giustizia e di tutto ciò che ci potrebbe permettere di spendere bene. Altrimenti corriamo il rischio di indebitarci ulteriormente. Nessuno, ad esempio, sembra preoccuparsi del fatto che il debito pubblico schizzerà alle stelle. Saranno gli italiani a pagarlo”.

Qual è la vostra proposta?

“Serve un ripensamento complessivo. Il Recovery deve essere concordato con il mondo del lavoro e le associazioni datoriali, con tutti gli attori dell’economia. Assieme a loro vanno individuate le modalità e le opere di spesa. Cosa che, ad esempio, si è fatta con la Regione: negli ultimi giorni la Camera di Commercio ha stabilito col presidente Musumeci una serie di asset specifici, come i trasporti, la logistica, il potenziamento degli hub aeroportuali e interportuali, su cui bisogna intervenire subito. Per completare un’opera non si possono attendere 15 o 20 anni. Altrimenti avremo un’Europa a due velocità, in cui noi siamo quelli che corriamo meno”.

La Regione non si è comportata benissimo coi ristori. La Finanziaria anti-Covid è ancora sulla carta, tantissime risorse non sono state erogate.

“La Regione ha fatto quello che poteva. Con risultati alterni. Diciamo che alcuni ristori fra i più massicci, come quelli per il turismo, non sono ancora arrivati. Siamo all’anno zero. Parliamo di un settore trainante della nostra economia – comprende anche l’accoglienza – che sta vedendo affievolire, oggi più che mai, ogni possibilità d’impresa. Diciamo che servirebbe maggiore attenzione per convogliare i fondi. Alcuni assessorati sono andati meglio, ad altri servirebbe una sterzata”.

Vale la stessa cosa per la certificazione dei fondi europei. La Regione si vanta di aver superato l’obiettivo di spesa imposto da Bruxelles, ma molti assessorati sono rimasti indietro. Sulla programmazione comunitaria lei è già stato molto chiaro.

“E’ una sfida che non possiamo perdere. Prima di cercare nuovi canali di finanziamento, la pubblica amministrazione deve procedere col saldo dei progetti già attivati. La nostra richiesta è stata accolta da qualche assessorato, come quello alle Attività produttive; meno da altri. Quello all’Energia, ad esempio, è molto in ritardo. Ha avuto dei problemi, come l’avvicendamento dei direttori, e questo fa molto male. Significa che la burocrazia porta alla paralisi. Questo impone anche un’altra riflessione: cioè come snellire la macchina amministrativa”.

E’ uno dei passaggi cruciali nell’ultimo accordo Stato-Regione, che però comprende altri compiti per casa assai ardui. Ad esempio, secondo lei, la Regione riuscirà a tagliare sprechi e rami secchi, come nel caso delle partecipate?  

“Più volte si è tentato di fare accorpamenti, chiusure e non si è mai arrivati a nulla. Serve una riforma complessiva della macchina amministrativa. Bisogna abbandonare quel vizio atavico, che in Sicilia esiste da 30 o 40 anni, di distribuire incarichi di sottogoverno. Bisogna uscire da questa logica e tornare alla buona politica. Le resistenze sono tante e qualcuno continua a non rendersi conto che questa disattività economica penalizza tutti. E’ uno spreco di tempo e di denaro. E vede, il problema non è abbassare il compenso dell’amministratore di turno: io arriverei persino a strapagarlo se mi garantisse di chiudere o modificare l’assetto organizzativo di una determinata azienda”.

Tutti prefigurano scenari drammatici per l’economia dell’Isola. Ma un motivo di speranza si riesce a trovarlo, oppure no?

“L’ottimismo e la speranza sono basati sul fatto che continueranno ad esistere imprese e imprenditori. Ma bisogna rivedere il modello di sviluppo: meno Stato e più libera concorrenza, purché lecita e legittima. Anche in una città come Palermo, negli ultimi vent’anni, abbiamo assistito a una intromissione sempre maggiore da parte del Comune in tutti i settori strategici: dai trasporti ai rifiuti, dalla gestione dell’acqua a quella dell’energia. Inoltre, tutti i posti sono stati occupati ignorando la prerogativa più importante: cioè il merito. Questo risponde all’esigenza della politica di scambiare il lavoro con il consenso. Ecco: bisogna ripensare il modello di sviluppo anche nel rapporto tra lavoro e pubblica amministrazione. E creare una classe dirigente fondata su merito, capacità e abnegazione”.