Dopo la notizia dell’inchiesta per corruzione a carico del presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno, (quasi) tutti puntano su un concetto: i magistrati facciano in fretta. Persino il presidente dell’Antimafia, Antonello Cracolici, reclama una certa urgenza per evitare un “limbo” che metterebbe “a rischio la credibilità e l’autorevolezza dell’istituzione parlamentare siciliana e del suo vertice”. Ma la posizione espressa dall’esponente del Pd, in generale, può avere declinazioni diverse: una è quella del centrodestra. Trascinare a fondo Galvagno, se da un lato spalancherebbe a Schifani le porte del secondo mandato, dall’altro inguaierebbe Fratelli d’Italia, che nell’isola ha già vissuto le sue alterne fortune. Per non parlare di disgrazie.

Riepilogarle, dalla prima all’ultima, farebbe un torto a Galvagno (che per il momento è solo indagato), ma anche al commissario Sbardella e – perché no – alla premier Giorgia Meloni. Che aveva mandato il parlamentare romano per evitare che si ripetessero altri casi Auteri. FdI, per sua sventura, rimane un partito fortemente compromesso col clientelismo, coi pagnottisti, con le feste in genere (basti vedere cos’è accaduto con il Taormina Film Festival o con il Sicilia Jazz Festival). In attesa di capire e se come Galvagno abbia ricevuto un vantaggio per i propri collaboratori, in cambio di contributi assegnati a due imprenditori con leggi regionali (l’ultima manovrina del 2023), è notorio che l’unica occupazione dell’Ars, che dirige ormai da quasi tre anni, sia quella di provvedere alla spartizione di mance e prebende. Con metodi che fanno gridare allo scandalo.

Persino il Ministero dell’Economia aveva ravvisato gravi vizi nella concessione di finanziamenti a questo o a quel Comune, mettendo Schifani in guardia con una pre-impugnativa che non è mai diventata definitiva. Ma anche in passato, prima dell’intervento dello stesso Galvagno che aveva “imposto” all’Assemblea di non spartire i piccioli alle associazioni (ma solo agli enti locali), gli scandali si erano accavallati. Da Auteri, capace di dirottare oltre 700 mila euro di contributi pubblici ad associazioni a lui vicine (talvolta gestite da familiare), passando per alcuni parlamentari messinesi – come il forzista De Leo e la stessa assessora Elvira Amata – che dirottavano indistintamente i contributi ad alcune iniziative svolte nel Messinese. Che siano rassegne teatrali o sagre della porchetta poco importa. Era comunque casa loro.

Nessuno ha mai pagato perché non c’è una legge che lo vieta. Esiste un vincolo d’opportunità, abbondantemente superato. Da tutti. Il problema adesso è un altro. Galvagno non è uno qualunque. E’ l’enfant prodige di Fratelli d’Italia; che non solo si erge a paladino della legalità in un’Ars che non conosce altra lingua oltre a quella delle clientele, ma è anche il promotore (e primo attore) di una fondazione culturale come la Federico II, che dovrebbe esportare arte e bellezza. E che invece è stata consegnata chiavi in mano a Sabrina De Capitani, la guru della comunicazione, lasciata (troppo) libera di amministrare le fortune e gli eventi dell’ente di palazzo Reale dopo l’addio notificato via pec a Patrizia Monterosso.

Questione un po’ diversa per Palazzo d’Orleans. Un’ambizione mai rivelata del tutto. Il figlio prediletto di La Russa – con cui condivide la militanza e le origini paternesi – avrebbe avuto certamente un’occasione se il partito lo avesse voluto. In caso di passo indietro di Schifani, o di mancato accordo sulla riconferma dell’ex presidente del Senato, il suo nome sarebbe tornato d’attualità in due secondi. Anche grazie al potentissimo fil rouge che lo lega a Manlio Messina da un lato e a Raffaele Lombardo dall’altro. Anche se negli ultimi tempi – va detto – i riflettori sono puntati su un’alternativa di qualità e al femminile: quella di Carolina Varchi (che adesso guadagna notevolmente terreno).

Ma il caso Galvagno trascende l’ambizione di una poltrona (seppur importante). Il presidente dell’Ars – che comunque non ha mai nascosto di trovarsi bene nel ruolo e di essere disposto a rifarlo – è uno che ha imparato in fretta l’arte della diplomazia, è il volto fresco che avrebbe potuto alimentare la speranza dei siciliani (per il politichese vale tutto…) dopo legislature lente e compassate. Ecco perché la vicenda attuale, con il sentito augurio di uscirne pulito, rischia di andare ben oltre il classico incidente di percorso.

Le carte giudiziarie potrebbero rallentarne la scalata, un eventuale processo – siamo ancora alle indagini – potrebbe invece costringerlo (com’è accaduto al leghista Sammartino, per dirne una) ai margini di una vita pubblica intensa, che oggigiorno richiede una condotta trasparente, se non addirittura intonsa. La Russa e Meloni si ritrovano già con una bella gatta da pelare fra le mani. Che guai.