“Convocati alle 16 erano ancora al lavoro alle 22”.
Il cronista di un quotidiano di Palermo non riesce a velare un moto di solidarietà nei confronti di undici uomini e di una donna che, in rappresentanza dei partiti della maggioranza, sono rimasti così a lungo chiusi in una stanza per “spartirsi” gli Istituti Autonomi Case Popolari, i consorzi universitari e alcuni degli enti parco.
Hanno così ridato, spiega uno di loro, “governance ad enti di primo piano superando la stagione dei commissari”. La notizia sarebbe insignificante, la solidarietà eccessiva, l’indignazione fuori luogo.
Quelle brave persone, al termine del loro gravoso impegno, saranno magari state convinte di aver messo un tassello alla tenuta della maggioranza, di avere assolto al ruolo per il quale sono state elette. Del resto, cosa dovrebbero fare di diverso per dar senso alla loro funzione di deputati regionali, per giustificare a se stessi il compenso che ricevono? Fanno quello che possono. Si muovono dentro una realtà istituzionale che certifica la propria esistenza in vita attraverso piccoli, insignificanti episodi sempre più lontani da ciò che dovrebbe connotare il governo della cosa pubblica, la politica vera e propria.
Non ne hanno né i mezzi né la capacità. Assegnano così al potere, al piccolo potere che residua in questa periferia del mondo occidentale, il valore di collante, se non unico, certo essenziale per la formazione e la tenuta della maggioranza.
Tengono e incrementano il consenso, superano i contrasti interni, distribuiscono le risorse, il piccolo potere e le conseguenti prebende ai loro amici, operano quasi sempre in accordo con le opposizioni che si fanno sentire quel poco che serve a segnalare che anche loro ci sono.
Una notizia così banale non può suscitare neppure riprovazione. Del resto, quelle dodici brave persone hanno percorso una strada antica, hanno utilizzato un metodo consolidato. Sull’assegnazione del sottogoverno, in anni lontani qualcuno ci aveva scritto un trattatello che risultò indispensabile al tempo della Prima Repubblica per concorrere a tenere insieme i partiti di maggioranza e le correnti interne alla Democrazia cristiana. Con una differenza rispetto ad oggi: allora, prima di assegnare le venticinque poltrone delle quali si è parlato, si sarebbero organizzati dibattiti sulla casa, sul diritto allo studio e sulla tutela dell’ambiente. Tutto sarebbe risultato più elegante. E non sarebbe stato solo un fatto formale. Anche quello dà valore all’azione politica, costruisce occasioni di confronto tra i partiti, evidenzia problemi concreti, tiene vivo il legame tra le istituzioni e i cittadini, alimenta il loro interesse e la loro partecipazione.
Sicuramente al tempo del quale parlo i risultati non furono sempre adeguati alle esigenze della nostra terra. Ci si provava comunque. Si provava a tenere separato il lavoro della “cucina” da quella zona nella quale si praticava la politica, con i suoi riti, i suoi valori, le ambizioni dei suoi protagonisti e la ricerca del potere.
Oggi si va per le spicce. Non si perde tempo con sofisticherie e formalità. Non si cerca giustificazione diversa da quella dell’investitura popolare che darebbe il diritto a comandare più che a governare, e con la gente, con il “popolo” si trova un modo semplice e improprio di interloquire, o piuttosto di sollecitarne il plauso. Fuori e lontano dalle istituzioni e da questo rapporto rimane il popolo vero, quella sua parte descritta dal report della Caritas pubblicato nelle stesse ore del conclave dei nostri dodici, che sarebbe augurale tornino a riunirsi presto per discuterne. La Sicilia consolida il suo triste primato con il 5% delle famiglie nel 2024 costrette all’assistenza della Caritas.
Il rischio della povertà raggiunge il 38%, il doppio della media nazionale, e l’86% di quanti corrono quel rischio sono disoccupati. La casa, la salute, l’istruzione configurano una condizione inadeguata, una realtà cronica e radicata nel tempo. La colpa della povertà non può essere addebitata solo a chi governa da qualche tempo il Paese e la Regione. Semmai può provocare indignazione l’indifferenza che accompagna questi dati, l’assoluta indifferenza di chi governa, di chi è all’opposizione e di molta parte dei mezzi di informazione. I poveri non sono un problema sul terreno elettorale e pertanto per loro in questa nostra terra, in questo nostro mondo, rimane uno spazio residuale per gli “scarti”, come amaramente li definiva Papa Francesco. I poveri non hanno voce. Sono una presenza da ignorare. Non disturbano più di tanto, non votano, non suscitano interesse.
Per loro, finché può, ci pensi la Chiesa. Perché la carità, sotto forma di elemosina, sia l’unica risposta alle migliaia di nostri concittadini che vivono in quella condizione.