Ma che gli è preso al demone divino di una città come Bologna? Quale altro morbo ha combattuto e vinto la sua spensieratezza e anche la sua drammatica, spettacolare allegria, la sua pastosità, la sua bellezza piazzaiola e cattedrale, le sue glorie municipali, la sua resistenza al vecchio vizio dell’italiano che da Milano infallibilmente marcia su Roma e da Firenze pretende di imporre il dominio universale del Rinascimento, che fine ha fatto la sua civiltà filologica, la pastosa eccentricità della vita civile nel grande studentato, la severa gustosità dei suoi portici e ristoranti? In un giro di tempo brevissimo Bologna ha monumentalizzato, celebrato, emeritato con le chiavi della città il nullismo antisionista di una chiacchierona di serie B e poi ha vietato un corso di Filosofia per gli allievi in divisa dell’Accademia di Modena. Due mortificanti follie, e a quanto pare senza marcia indietro. Che sbilenca stranezza per un ambiente famoso per la litigiosità e l’altezzosità romantica della sua musica, tra Wagner e Verdi, in un intrico di luoghi dove la voce di Carmelo Bene portò Dante Alighieri a un popolo di poeti di strada squinternati e gaudenti, in notti di raucedine e tuoni vocali tra le Torri che strizzavano il tempo, il ritmo, l’accento nella prosodia della sua bellezza. Come si può tanto stonare in un posto così incantato e cantante? Ci vorrebbe una speciale sovrintendenza incaricata di tutelare non tanto l’onore, che in sé può essere il superfluo della retorica, ma la vitalità e l’intelligenza di una città così infinitamente cara a questo dolce e sciagurato paese, un hub, un crocevia naturale che non si sarebbe mai immaginato come una cattiva scuoletta o un magistero della più piccola ideologia contemporanea. Continua su ilfoglio.it