La Commissione regionale antimafia di Claudio Fava ha deciso di aprire due nuove inchieste: una sui rapporti tra mafia e politica, che negli ultimi mesi hanno “inquinato” l’Ars e Palazzo d’Orleans; l’altra sull’attentato all’ex direttore del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, che la notte fra il 17 e il 18 maggio 2016 uscì illeso da una sparatoria. E che ancora oggi, a distanza di tre anni, non conosce né i mandanti né gli esecutori del blitz. Non è tutto: il deputato dei Cento Passi, infatti, ha chiuso la bozza del codice etico che nel giro di un paio di settimane arriverà in aula per l’approvazione. Ma l’esigenza più incombente, per Fava e tutto il parlamento siciliano, è combattere la corruzione, che da qualche tempo a questa parte si infiltra con preoccupante naturalezza nelle istituzioni regionali. Un tangibile esempio è rappresentato dall’ultimo scandalo sull’eolico, che si è allargato a macchia di leopardo fino a Roma, tanto da mettere in subbuglio la tenuta del governo gialloverde, ma anche il caos del voto di scambio emerso dall’inchiesta di Termini Imerese e i rapporti fra politica e massoneria nella patria di Messina Denaro, a Castelvetrano. Tre situazioni che inducono a una ricognizione, anche da parte della commissione, per capire “come sia mutato profondamente e pericolosamente il rapporto tra mafia e politica, meno vasto e tracotante di un tempo, ma forse più pervasivo. Questo mi pare uno dei limiti di conoscenza e di verità che la politica deve provare a colmare”.

Onorevole Fava, perché a Roma, per un sottosegretario indagato, si apre una crisi di governo mentre a Palermo si continua a rinviare un semplice dibattito parlamentare sulla “questione morale”? Le nostre istituzioni non sono specchiate e quattro degli undici membri della giunta risultano indagati.

“Questa è l’altra versione della tanto celebrata autonomia siciliana: ossia la sua extra territorialità, anzitutto morale. Come se gli strappi, le ansie, le contorsioni, le paure, le violenze e le seduzioni della scena politica nazionale arrivassero qui stanche, sfilacciate, spompate, destinate a liquefarsi improvvisamente. Per cui la Sicilia continua ad applicare tempi, regole, livelli d’indignazione che sono soltanto propri. Esiste una condizione d’inerzia emotiva per cui aspettiamo che le cose accadano senza che da parte nostra vi sia alcuna reazione per farle accadere o per farle cessare. Un caso esemplare è questa discussione sulla questione morale che è diventata una specie di balzello da pagare e non l’inizio di una riflessione collettiva proposta dalla politica ai siciliani e che verrà spostata nel tempo finché nessuno ne conserverà più memoria”.

Il sistema corruttivo appare sempre più impenetrabile, a fronte di istituzioni che invece risultano terreno fertile per il malaffare.

“Io penso ci sia stata un’evoluzione profonda e drammatica del sistema corruttivo. Oggi la sua capacità di scegliere in modo selettivo amministrazione e politica, da asservire alle proprie necessità e ai propri profitti, è molto più spregiudicata ed efficace di un tempo. Oggi non è necessario controllare un sindaco. Basta corrompere un funzionario regionale, un segretario comunale, una figura di secondo o terzo piano che ha in mano le chiavi per cui alcune cose possano accadere, alcune licenze arrivare a compimento, alcune concessioni essere garantite… Questo ha modificato modi e tempi della corruzione, rendendola più penetrante. Dall’altra parte c’è la politica, che ritiene basti adorare qualche idolo di cartapesta o issare qualche bandiera perché la corruzione sia scongiurata. Così non è”.

La vicenda dell’eolico scorre lungo un sottilissimo fil rouge che lega un sottosegretario ai Trasporti alla mafia, ai vertici di Cosa Nostra. Non è un caso che il re dell’eolico, tale Vito Nicastri, abbia garantito al boss Messina Denaro una copertura economica per la sua latitanza.

“L’impunità di Messina Denaro è legata alla capacità da parte sua di garantirsi convenienza e compiacenza. Questo non passa attraverso le bande armate di miliziani mafiosi, ma dalla capacità di questa mafia 2.0 di distribuire convenienze sotto forma di licenze, appalti, gratifiche, percorsi agevolati rispetto alla spesa pubblica. E ha bisogno di servirsi di prestanome, di facce più o meno presentabili, anche se Nicastri era considerato parte di questo sistema ormai da molto tempo. E’ più interessante l’anello successivo, ossia un faccendiere che prova a mettere insieme pezzi di amministrazione, interessi mafiosi e investimenti. Sulla vicenda Siri, è chiaro che un passo indietro da parte sua sarebbe stato un atto di decenza soprattutto dopo aver rifiutato, dopo averlo più volte chiesto, l’incontro con i magistrati. Mi sembra però che questa di Siri sia legata ad altre vicende, battaglie, rese dei conti in cui non è in discussione la funzione della morale, ma la quantità del consenso tra i due contendenti, che sono Lega e 5 Stelle”.

I 14 indagati per l’attentato di Giuseppe Antoci sono stati archiviati. La Direzione distrettuale antimafia s’è arresa di fronte a un’evidenza che non esiste. Da cosa partirete per far luce su questa vicenda?

“Dal lavoro eccellente che è stato fatto da alcuni giornali e alcuni giornalisti, che hanno raccontato la vicenda registrandone le straordinarie anomalie: i mafiosi della zona intercettati che cadono dalle nuvole, le modalità stravaganti dell’attentato. Io credo che sia anche questo il compito della commissione antimafia: se c’è un’ombra, un’opacità così penetrante e persistente su una vicenda che coinvolge addirittura l’ex presidente del Parco dei Nebrodi, il vice questore, diversi funzionari di polizia, credo che sia dovere di tutti – non solo della procura di Patti che ha riaperto l’inchiesta, ma anche di chi ha strumenti politici istituzionali – capire davvero cosa sia accaduto”.

Anche la commissione nazionale antimafia, presieduta da Nicola Morra, si è interessata al caso Montante. Lo stesso Morra ha annunciato l’audizione di Salvini dato che lo Stato, al processo di Caltanissetta, non si è costituito parte civile. Che segnale è?

“Io penso sia un bene che commissione nazionale cominci a occuparsi di questioni aperte e afflittive, pesanti e complicate da decifrare. Il fatto che lo Stato non si sia costituito parte civile è grave, ma penso ci sia molta più gravità nella consistenza e nell’operatività di questo sistema d’affari. Non mi preoccupa tanto il Ministro dell’Interno di oggi che è colpevole di non costituirsi parte civile, ma i ministri dell’Interno di ieri, tanti, che avevano alzato un velo d’omertà su Montante e che con lui avevano un proficuo commercio di prebende, cariche e benevolenze politiche. Credo che sia una delle pagine più inquinanti della storia politica italiane e dopo l’estate apriremo un secondo troncone d’indagine. Dal momento in cui abbiamo licenziato e approvato la relazione sono venuti fuori altri elementi, ancora più allarmanti”.

Morra ha detto che alla sua relazione è seguito il solito silenzio imbarazzato. L’ha avvertito anche lei? E soprattutto, si sente solo in questa battaglia di verità?

“Tutta la commissione antimafia sta lavorando bene e con spirito di condivisione. Mi rendo conto che portare avanti il dovere di queste indagini, rispetto alla comodità di alcuni seminari sulla storia e la filosofia della mafia, è cosa assai spiacevole per taluni perché rischia di toccare fili scoperti. Questi sistemi continuano ad essere un pezzo della geografia del potere in Sicilia e in Italia. Non basta una richiesta a dieci anni di reclusione per Montante a bonificare il rapporto malato tra il potere e i suoi tanti vassalli. Credo che il silenzio dipenda dal fatto che è un sistema che continua ad avere, fuori, molti suoi epigoni e persone che sono riconoscenti per quanto hanno ottenuto e guadagnato, e quindi si sentono in dovere di tacere. Non è un caso che subito dopo l’indagine penale su Montante, coloro che gli erano più vicini – tranne alcuni che se la sono data a gambe levate – abbiano scelto di essere ancora più vicini. E’ una questione che sul tema delle responsabilità penali potrà riguardare soltanto uno o alcuni, ma sul piano delle responsabilità politiche riguarda tanti”.

Sul palcoscenico della politica regionale, in occasione della campagna elettorale per le Europee, sono tornati ad affacciarsi Raffaele Lombardo e Francantonio Genovese. Due esponenti politici che, per motivi diversi, hanno avuto qualche disavventura con la giustizia. Ma sono richiestissimi da partiti e candidati.

“Accanto al giudizio politico, ce n’è uno quanto meno sospetto in attesa degli accertamenti penali nei confronti dei comportamenti di queste due persone. Questa è una ragione sufficiente a non considerarli interlocutori utili in questa fase della politica siciliana. Quando la Lega si presenta con una piccola somma di slogan e poi cerca alleanze col vecchio ceto di potere siciliano mi ricorda il giudizio che diede Rossini a un giovane compositore che gli aveva sottoposto i suoi spartiti. Rossini disse: “C’è del bello e c’è del nuovo. Ma ciò che è bello non è nuovo e ciò che è nuovo non è bello”. Io penso si possa dire questo dei portatori di bellezza e di novità: le cose belle non sono nuove e le cose nuove non sono belle”.

Lei invece ha deciso di votare per Pietro Bartolo, lo storico medico di Lampedusa che corre col Pd. Il motivo di questa scelta?

“Non è soltanto una scelta d’amicizia e di stima nei confronti di una persona. Ma anche di alcuni temi che io considero fondamentali per affermare un’altra idea di Europa. Questa idea un po’ bagascia di populismo e di sovranismo, tu non la combatti combattendone i suoi testimoni e demonizzandoli. Ma proponendo un’altra idea. Più e meglio di tante altre parole che ho ascoltato in questa campagna elettorale, la storia di Pietro Bartolo, che da quarant’anni fa il medico a Lampedusa ritenendo che quel mestiere sia un modo per rendere onore alla sua terra e a chi vi arriva scappando alle proprie sofferenze, credo che sia un’esperienza di vita e un sistema di valori utile all’Europa. E che io, un domani, vorrei provare a proporre in termini di sfida politica, come valori di riferimento e di governo di questa Regione”.

Ha detto che non le dispiacerebbe ricandidarsi governatore. Solo per affermare questi valori o anche per spazzare via la palude dell’attuale governo Musumeci, che lei ha definito “fermo”?

“Io non so cosa accadrà nei prossimi anni, ma so che non ci si candida mai contro qualcuno. Se resto a fare la mia parte, vorrei poterla fare proponendo valori, principi, risorse, progetti. Non come una testimonianza, ma come occasione per un nuovo tempo per questa terra. Le sfide vanno sempre portate a un livello più alto, non servono soltanto a garantirsi diritti di tribuna o spazi di sopravvivenza. Se dovrò essere io a rappresentare tutto ciò, oppure altri, lo vedremo. Su questo governo, invece, io ho un non-giudizio politico. Mi intenerisce e mi smarrisce Musumeci che comizia dicendo “non mi fermeranno”. Musumeci è fermo. Da un anno e mezzo. Non si ferma ciò che è già fermo. Lui è l’essenza della staticità politica, amministrativa e di governo. Parliamo di un non-governo dentro il quale i valori di una onestà risorgimentale e di fascista perbene sono soltanto un’etichetta da appendere, una didascalia. Resta il fermo immagine: cioè un governo che non governa, perché non può e perché non sa”.

Ultima curiosità di natura politico-giudiziaria: qualcuno, a Palermo, ha capito che fine abbiano fatto i 91 milioni pagati a Ezio Bigotti, estero su estero, per il censimento dei beni immobili della Regione? Ci sono iniziative parlamentari in corso?

“In ambito parlamentare no, anche perché – ahimè – ci si è mossi pochissimo. Toccherà a noi, eventualmente, sollecitare una verifica alla Corte dei Conti. Se poi ci saranno altri ambiti in cui si aprirà una valutazione, e una di queste dovesse essere la commissione antimafia, lo vedremo nelle prossime settimane”.