E’ a questo che s’è ridotta la Regione: a una corsa smodata (e inutile) per approvare l’esercizio provvisorio. Cioè una serie di norme tecniche per consentire la spesa in dodicesimi a gennaio e febbraio 2021. Una spesa, fra l’altro, vincolata a un provvedimento del Consiglio dei Ministri (l’approvazione, ieri, è slittata per la seconda volta in pochi giorni), che non ha ancora reso esecutivo l’accordo per la spalmatura in dieci anni del disavanzo della Regione nei confronti dello Stato, sottoscritto a dicembre 2019. E tutto questo, a causa delle carenze croniche di Musumeci e Armao, che non sono riusciti a rispettare i patti: cioè la promessa di fare una serie di riforme entro 90 giorni, poi diventati 180, che – Covid o non Covid – avrebbero garantito alla Sicilia di abbattere gli sprechi e razionalizzare la spesa pubblica.

Ciò che il Consiglio dei Ministri, fino a un anno fa, chiedeva alla Sicilia, era una prova di fiducia: non la legge sull’Urbanistica, comunque utile, tanto meno quella sui tartufi o i marina resort: bensì una garanzia che i conti andassero a posto e che negli anni a venire non si accumulassero debiti in grado di pesare sulle future generazioni. Ma a questo invito la Regione ha risposto picche. Piuttosto ha scelto di aggrapparsi ai soliti discorsi e ai rituali piagnistei: cioè che Roma non ci dà i soldi e mortifica lo Statuto. Gaetano Armao ha ritirato fuori l’argomento quando il presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché, un paio di giorni fa a palazzo dei Normanni, gli ha chiesto perché il governo avesse presentato il ddl sull’esercizio provvisorio un giorno prima della scadenza dei termini di legge: “Non dipende da noi, ma dai ritardi di Roma”.

La teoria dello scaricabarile ha confinato la Regione a un passo dall’irrilevanza. Con la fiducia del governo centrale pari a zero – nonostante la sconto di 780 milioni di euro sul contributo annuale alla finanza pubblica e la moratoria dei mutui per gli effetti della pandemia – Palermo ha ancora voglia di protestare, mentre da oltre un paio d’anni non riesce a chiudere un accordo complessivo sull’attuazione dello Statuto e sull’autonomia finanziaria. La Sicilia è anche stata l’ultima regione a presentare un piano di riprogrammazione dei fondi europei, utile a coprire la seconda tranche della Finanziaria per oltre un miliardo e duecentomila euro di spesa. Con quasi otto mesi di ritardo rispetto all’approvazione dell’ultima “manovra di guerra”, la proposta è stata inoltrata il 9 dicembre scorso al dipartimento della Coesione territoriale, guidato dal ministro Provenzano, e ha avuto il via libera dal Cipe (il comitato interministeriale per la programmazione economica) dopo una richiesta di integrazione che tardava ad arrivare.

Accumulare ritardi su ritardi può diventare una violazione alle “prescrizioni costituzionali in materia di contabilità pubblica” (l’accusa è del Partito Democratico), e certamente non giova alla salute delle casse regionali. Significa approvare i provvedimenti in poco tempo, senza poter approfondire e rischiando di sbagliare. Significa indisporre le opposizioni. Per l’esercizio provvisorio è stato impossibile concedere tempo per gli emendamenti: l’esame sarebbe dovuto iniziare e concludersi in commissione Bilancio nell’arco di poche ore. Impossibile. I termini del 31/12, così, sono stati sforati. Se ne riparlerà a gennaio.

La Regione, in sostanza, non ha imparato nulla dal passato, dal rischio default dell’anno scorso, che la Corte dei Conti aveva paventato in modo chiaro e netto, certificando due miliardi di disavanzo, anche a causa delle precedenti gestioni un po’ “allegre”. L’avvento della pandemia non è stato un monito, bensì un motivo per annacquare gli impegni non ottemperare al cambio di passo. E’ il replay di un disastro che si ripercuote su tanti lavoratori, che si vedono ridotti all’ultimo dell’anno per il versamento degli stipendi o per incassare una proroga contrattuale; e per tantissimi siciliani, che speravano in un contributo per superare indenni il lockdown di primavera e le recenti chiusure forzate. Invece nulla. Oggi come oggi non è possibile nemmeno predisporre le “mancette” di San Silvestro. I soldini ad enti, associazioni, parchi e aeroporti, che accrescono il valore dei singoli deputati nei vari collegi elettorali. Le ultima variazioni di Bilancio (con coperture incerte) e il Ddl stralcio, proposto a mo’ di collegato (e in parte abortito) negli ultimi giorni ,ne sono una prova.

Le risicate casse di palazzo d’Orleans, l’audace tentativo di rimodulare risorse per investimenti e utilizzarle per la spesa corrente, la ricognizione troppo lenta dei quattrini a disposizione (e non ancora vincolati), hanno prodotto un effetto domino (nonostante le deroghe di Bruxelles al Patto di Stabilità): cioè liquidare la Legge di Stabilità con un nulla di fatto, ritardare i pagamenti, vanificare le istruttorie, inaridire le speranze di ricevere un ristoro. A causa dei guai del click-day e delle piattaforme informatiche della Regione, le microaziende si sono viste recapitare prestiti a fondo perduto per appena 2 mila euro. Briciole per ricompensare mesi di sofferenza. I soldi per pescatori e agricoltori sono ancora in ghiaccio, il bando per il turismo è andato deserto (con la stagione “ferma” nessuno ha intenzione di rischiare), mancano i prestiti per le famiglie e gli aiuti agli indigenti (sbloccati soltanto trenta milioni a fronte dei cento promessi). Ogni tanto gli spot si materializzano: come il bonus matrimoni, che mette in palio 3,5 milioni ed è avviato alla conclusione (soldi ottenuti grazie alla moratoria dei mutui da parte di Roma). Ma non è mai abbastanza.

Il governo Musumeci aveva promesso che non ci sarebbe mai stato un esercizio provvisorio. Invece siamo al terzo di fila. Nel 2020 durò addirittura quattro mesi. L’attuale, complice il ritardo della Corte dei Conti sul giudizio di parifica sul rendiconto 2019 (in programma il 29 gennaio), coprirà soltanto gennaio e febbraio, salvo il riacutizzarsi delle criticità. Ma fino ad allora a palazzo non sarà chiaro che prospettiva dare alla Sicilia. Su quali capitoli investire, e perché. All’orizzonte c’è un destino di cartone, proprio come l’ultima Finanziaria. La cosa grave è che nessuno sembra volersi occupare degli aspetti più gravi della crisi: il crollo dell’8% del Pil e del tasso d’occupazione (giovanile e femminile), il 30% delle imprese che rischia di non riaprire, la desertificazione delle aree interne, il fatto che siamo la seconda regione europea col più alto tasso di rischio povertà (dopo la Campania), addirittura più inguaiati della regione bulgara di Severozapaden. L’unico antidoto a questi dati tremendi è l’esercizio provvisorio. Che poi è quasi diventata un’arte: l’arte del provvisorio.