Una maggioranza risicata e raccogliticcia, che al Senato, pochi giorni fa, ha dato la fiducia al governo, non poteva consentire a Conte di continuare a vivacchiare e meno che mai di far fronte adeguatamente alla drammatica situazione sanitaria ed economica del Paese, non offriva alcuna garanzia di costruire un progetto organico per utilizzare le enormi risorse comunitarie che arriveranno nei prossimi mesi ed anni. I tentativi di sostituire Renzi con nuovi gruppi, mantenendo in vita l’esecutivo, non hanno avuto alcun esito. Di fronte al rischio di vedere bocciata la relazione annuale sulla giustizia e quindi di cadere su una questione fortemente identitaria per il Movimento cinque stelle e per il ministro di Giustizia, si è capito che non rimaneva altra strada che rimettere tutto nelle mani del presidente della Repubblica.

Il governo non poteva andare in minoranza su un tema che più di altri ha definito la natura e il progetto dei grillini e sul quale essi sono sostenuti e incalzati dal quotidiano di Travaglio. “Onestà, onestà” continua ad essere il refrain più frequentemente ripetuto, sopravvissuto al “vaffa”, da qualche tempo riposto in soffitta.

Il giustizialismo è rimasto l’ultima trincea per una formazione che, quando ha dovuto affrontare i problemi con la loro complessità e durezza, è stata costretta ad abbandonare le forme originali e più radicali o accomodarle e interpretarle per applicarle in casa propria. Il giustizialismo è ancora, quindi, un punto da difendere a tutti i costi, rappresenta ciò che resta dopo che tutti i proclami precedenti, dichiarati sempre non negoziabili, sono stati abbandonati. Cadesse anch’esso, il rischio della frantumazione del Movimento sarebbe ancor più concreto di quanto non sia stato fino ad oggi.

Il ministro di Giustizia, che rischiava di essere impallinato è il capo delegazione al governo ed ha avuto il merito di individuare Conte e di portarlo a Palazzo Chigi. Bonafede non è propriamente una persona empatica, che attrae consensi, che va bene, sarà giustizialista ma, ci capisce, è uno che il diritto e il rovescio lo tiene nel taschino e tira fuori l’uno e l’altro sempre a proposito! Lo spartito è indigesto e il suo interprete spesso stonato. Qualche volta, poi, ironia della sorte, egli è finito sotto accusa da parte dei più puri dei puri.

Diceva molti anni fa Pietro Nenni, capo dei socialisti italiani, che a fare a gara con i più puri troverai sempre uno più puro che ti epura. Alla vigilia della discussione in Senato sulla relazione sulla giustizia, non potevano essere accolti gli inviti a dire qualcosa di garantista. Non era possibile aprire uno spiraglio sulla prescrizione che, con lo “spazzacorrotti”- attributo quanto mai “elegante” per una legge, ma efficace per la comunicazione su Facebook e su Twitter -, al fine di eliminare gli aspetti più negativi di uno strumento che ha consentito di sfuggire alla giustizia avvalendosi di avvocati bravi e cavillosi, si è consegnato al ruolo di imputato a vita chiunque, innocente o no, incappa in un procedimento e avrebbe il diritto di essere giudicato in tempi ragionevoli. Su questo terreno non si arretra, almeno fino a quando non si prende atto che l’onestà è un presupposto indispensabile per l’azione politica, come per ogni altra attività umana che non deve essere scissa dall’etica, ma non definisce da sola competenze, attitudini, capacità e intelligenza per governare, come è provato da tanti esponenti dei Cinque stelle che sicuramente proclamano e praticano l’onestà ma che mostrano un’allarmante carenza di cultura politica e di capacità operativa, quando non appaiono, a volte, degli strampalati improvvisatori. Fino a che non si chiuderà una lunghissima stagione iniziata negli anni ’80 del secolo scorso, ritrovando un equilibrio efficace tra i poteri dello Stato, si continuerà a sbandare tra il giustizialismo manettaro e l’invocazione di un garantismo peloso, tra chi mette nel conto l’uso della via giudiziaria al governo e chi invoca per sé e per la propria parte salvacondotti per essere sciolti dall’obbligo di rispettare la legalità, tra chi vorrebbe attivare la tagliola nei confronti di tutti quelli che ricevono un avviso di garanzia, che si trasforma in notifica di condanna e chi non si scompone e non ha nulla da obiettare neppure in presenza di sentenze di colpevolezza, tra chi vorrebbe la legge uguale per tutti e chi, come Salvini, è intransigente e giustizialista nei confronti degli autori di alcuni reati, specialmente se commessi da extra comunitari, e diventa ipergarantista nei confronti dei colletti bianchi, allorché evadono il fisco o commettono reati contro la pubblica amministrazione.

La storia del giustizialismo, in brevissima sintesi, comincia nel momento in cui alcuni magistrati incrociano e in qualche modo piegano la “questione morale”, assunta dal Partito comunista nel 1980, come elemento identitario a motivazioni ideologiche, e mettono insieme la meritoria lotta al perverso, illecito rapporto tra economia e forze politiche, alla lotta alla mafia che attentava alle istituzioni e uccideva i suoi rappresentanti, mettono insieme tutto ciò con la volontà di andare oltre la individuazione del reato e dei suoi autori. Il giustizialismo trasformò, così, alcuni procuratori in “grandi inquisitori”, in controllori della legalità, in giustizieri del cosiddetto “sistema”, portato alcune volte sul banco degli imputati insieme ai colpevoli o ai presunti tali.

La maggior parte di loro ha finito per essere assolta e la storia non si è lasciata processare perché i tribunali non erano il suo giudice naturale. Una lunga stagione visse su questo equivoco. La sinistra o una parte di essa lo incoraggiò, lo utilizzò come arma per la lotta politica. Grandi gruppi editoriali fecero da megafono a coloro che vollero regolare i conti con gli avversari, porre fine ad una storia lunga cinquant’anni e cancellare anche la memoria dei partiti e degli uomini che l’avevano scritta. Della questione morale, nel 1994, Berlusconi finì inopinatamente per essere il beneficiario, prima dando voce ai magistrati di Mani pulite con le sue televisioni, per poi, attaccato dagli stessi, diventare il campione del garantismo. La sinistra, dopo anni di inutili tentativi di regolare i conti con lo stesso Berlusconi per via giudiziaria, capì che egli andava battuto con la politica e che il giustizialismo poteva diventare un boomerang. “I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono”, è la frase di Francesco Bacone che Violante, trasformatosi in garantista dopo avere avuto per molti anni il ruolo di interprete, guida e suggeritore del giustizialismo, utilizza in un suo recente libro. Sempre Violante, qualche tempo fa, ha ammonito i grillini a tenere conto che “il giustizialismo costa caro agli innocenti”.

Vanno sicuramente incalzati ma senza pregiudiziali ostilità nei loro confronti gli esponenti del Movimento cinque stelle. Va anzi incoraggiato il processo di maturazione, l’uscita dai furori adolescenziali, un processo che, con aspetti contraddittori, e a fasi alterne, è in atto. C’è da sperare che questa sorta di nemesi storica che costringe il governo con un presidente del Consiglio legato ai grillini, con un ministro di Giustizia fortemente schierato sugli spalti dell’intransigenza e con un giornale che li incalza giorno per giorno, che questa esperienza induca il governo e la maggioranza che si formeranno a comprendere a pieno quanto sia essenziale per una democrazia occidentale trovare un equilibrio tra i poteri, realizzare un sistema giudiziario rigoroso per chi delinque e garante per i diritti di tutti. Quel risultato è un presupposto essenziale per la ripresa economica, un elemento imprescindibile per far diventare il Paese competitivo in Europa e nel mondo.

(Calogero Pumilia è stato deputato della Democrazia Cristiana ed è autore del libro “La caduta”’ edito da Rubbettino e da pochi giorni in libreria)