Discreto, riservato, quasi timido ma affabile nell’approccio, generoso nel rispondere alle domande, con la calma fermezza dei saggi, con l’ironia del romano trasteverino (pur se frusinate d’origine), arrabbiato solo quando si parlava delle ragioni della musica e di quanto la politica non ne tenesse conto, dalla scuola ai Conservatori, alle orchestre. Mai scostante, sempre disponibile, nonostante fosse un gigante. Un artista da due Oscar, quattro Golden Globe, due Bafta, tre Grammy, un Leone d’oro, dieci David di Donatello e altrettanti Nastri d’argento per enumerarli alla spicciolata. Con la stessa discrezione Ennio Morricone è morto in clinica, a 91 anni, per una caduta che gli aveva procurato la frattura del femore, se lo aspettavano un po’ tutti, negli ultimi giorni, dalla moglie Maria (una vita al suo fianco) ai figli, ai nipoti. Eppure fino allo scorso anno aveva diretto concerti, la summa dei suoi capolavori per il grande schermo, dai film di Leone a quelli di Tornatore, passando dall’Arena a Caracalla, ottanta professori d’orchestra e il coro con gli strumenti e il fiato sospesi fino al suo attacco, i “must” di una lunga carriera in cui non si era solo limitato, con le sue partiture, a corredare le immagini sullo schermo, perché quelle note erano immagini anch’esse, evocazioni sonore, «e se non ne eseguo alcune – confessava – questi qui mi menano». Accompagnato sul podio da un assistente, passo incerto ma direzione fermissima, bacchetta precisa e volitiva.

Morricone è stato un grande compositore ma anche un grande tecnico della musica (allievo di Goffredo Petrassi a Santa Cecilia), un creatore che spaziava tra i generi, che si divertiva ad assemblarli dopo averne smontato i cardini per dar vita a nuove sonorità, un precursore anche di certe astuzie tecniche (le basi preregistrate, ad esempio, sulle quali innestare la musica dal vivo, «le ho provate la prima volta al Sistina, Garinei e Giovannini ancora mi corrono dietro») che aveva affinato durante la frequentazione della cosiddetta musica leggera quando era diventato uno dei pilastri dell’arrangiamento di molti successi dei cantanti in voga negli anni ’60 alla Rca Italiana capitanata da Ennio Melis (da Meccia a Morandi, daVianello a Fontana) e alla quale aveva regalato tra le perle più luminose «Se telefonando» diventata un evergreen con la voce di Mina (scritta su testo di Maurizio Costanzo e Ghigo De Chiara).

Ma è certo il cinema a dargli la fama internazionale. Spaziando anche nella Settima Arte per generi e registi, dai western all’italiana di Leone e Tessari al politico di Petri e Montaldo, dalla commedia di Festa Campanile al sociale di Patroni Griffi, fino a Giuseppe Tornatore con il quale, dall’esordio di «Nuovo Cinema Paradiso», instaurerà, fortissime, amicizia personale – un affetto quasi paterno – e consonanza artistica. Per poi collaborare con le firme internazionali, da Carpenter a De Palma, da Tarantino ad Almodovar, da Malick a Joffè.

Discrezione e riservatezza anche per l’ultimo atto: ha chiesto funerali privati e si è persino scritto da sé il necrologio, ricordando, oltre agli affetti familiari, Peppuccio (Tornatore) e la moglie Roberta. Poi, vicino alla fine, ha voluto salutare e abbracciare i nipoti, i figli e l’amatissima Maria. L’ultimo Oscar, quattro anni fa, gli era sembrato giusto dedicarlo a lei.