E’ quasi come la storia del Ponte sullo Stretto: c’è sempre qualcuno che la ritira fuori. Anche se a crederci sono rimasti in pochi. La DC, in Sicilia, è un titolo onorifico di fronte a chi si “macchia” del sostegno a frange populiste. Un rigurgito del passato che diventa attuale nei commenti degli addetti ai lavori, quando il M5s da un lato e la Lega dall’altro non sfondano. E’ il caso delle ultime elezioni Regionali, che hanno visto il tracollo di Salvini nel Mezzogiorno e condannato i Cinque Stelle a un passo dall’irrilevanza. E allora, quale migliore antidoto della “balena bianca”? “Se ci fosse un partito capace di parlare alla testa e non alla pancia, di riannodare il rapporto fra cittadini e istituzioni, sarebbe una buona cosa. Servirebbe a stabilizzare il quadro politico e dare risposte alla gente”, sostiene Totò Cardinale. Ma anche per un democristiano incallito come lui, Ministro della Comunicazione nei governi D’Alema e Amato (dal 1998 al 2001), sperarci è quasi un esercizio velleitario.

Alcuni centristi sostengono che la nuova Democrazia Cristiana, qui in Sicilia, potrebbe rappresentare il 25-30% dell’elettorato.

“Una proposta fatta in questi termini non soddisfa le esigenze del Paese. Al massimo, può offrire una prospettiva di carriera solo a chi la formula. Legittima, per carità. Ma non è questa la strada”.

E allora qual è?

“E’ necessario costruire un progetto serio che riesca a colmare i vuoti attuali: il voto di pancia, lo scollamento fra cittadini e istituzioni, l’incapacità dei partiti di metterli in contatto. Dopo questa iniziale contestazione, però, bisogna andare oltre. Passare alla fase della proposta. E chiedersi: perché queste cose non vanno? Come possiamo risolverle? Quali risorse abbiamo? Io, ad esempio, partirei dalla Sicilia: dal dramma delle famiglie che stanno pagando un prezzo altissimo alla pandemia; dalle attività che chiudono e da quelle che non sono ripartite per timore del contagio; dai cittadini che non lavorano più o hanno smesso da mesi. E’ a loro che bisogna dare una risposta”.

Ha poca fiducia negli interpreti di questa riedizione della “cosa bianca”?

“Sono tentativi legittimi e rispettabili. Ma poiché lei mi sta chiedendo se ci credo, la mia risposta è ‘no’. Non trovo giusto che si parta dai numeri o dal tentativo di affidare la guida a qualcuno solo perché rispetta determinati requisiti anagrafici. Ci vogliono delle regole, la capacità di interloquire sul territorio e di tramutare le parole in azioni di governo serie”.

Luca Sammartino potrebbe essere la testa d’ariete di questo nuovo centro.

“Non so parlarne, non ho elementi di valutazione. Comunque, vale il discorso di prima: per far nascere un soggetto in grado di colmare uno spazio enorme – che va da destra a sinistra, dal riformismo liberale a quello cattolico – non si può far convergere su una persona tutto ciò che proviene dal centro. La politica non si riduce a una semplice somma”.

L’ex presidente della Regione, Totò Cuffaro, non ha mai nascosto l’ambizione di creare una nuova classe dirigente. E ha deciso di investire su una scuola di formazione politica. E’ un altro segnale?

“Cuffaro è guidato da buone intenzioni, ma l’esperienza mi dice che potrebbero rimanere tali. ‘Formare’ significa dare a ogni allievo delle basi di conoscenza da utilizzare fuori; renderlo libero di guardarsi intorno e fare delle scelte. Non ritengo Cuffaro così ingenuo da voler addestrare qualcuno a diventare democristiano”.

Quali sono i dati più significativi emersi dall’ultima tornata elettorale?

“La riduzione di consensi di Salvini e la tenuta sostanziale della Meloni. E poi che non esiste più il centro. Forza Italia è un partito di cui si parla al passato”.

E Renzi?

“A Firenze, assieme a +Europa, non è riuscito a raggiungere il 5%. Credo che si commenti da solo”.

Tutti i governatori uscenti sono stati confermati.

“Questo è l’altro elemento. Pensi che, a parte Zaia, tutti gli altri partivano sfavoriti. Di De Luca, in Campania, si diceva che al massimo sarebbe arrivato al 25%. Di Toti, che non capisse nulla di politica, e dello stesso Emiliano che era spacciato. Invece hanno saputo aggregare, interpretando al meglio le difficoltà del Covid, stando fra la gente, cercando di salvaguardare la salute e l’economia. Sono stati avvertiti come portatori di un progetto, tutori dei diritti elementari dei loro corregionali. E per questo sono stati stravotati. Non hanno vinto i partiti. Hanno vinto gli uomini”.

Musumeci ha le carte in tavola per interpretare quel ruolo?

“In tempi non sospetti, ebbi la convinzione interessata che il presidente della Regione potesse raccogliere consensi e fungere da raccordo al centro. L’aveva suggerito qualche sua dichiarazione. Musumeci è una persona che stimo, rispetto e apprezzo per il rigore e l’onestà intellettuale. Ma il suo limite si chiama Diventerà Bellissima. E’ come una palla al piede. Non vorrei azzardare paragoni impropri, ma somiglia al Megafono di Crocetta, che finì per isolarlo. Per Musumeci, l’unico modo di superare questa difficoltà – che avverto – è smarcarsi al centro. Raccogliendo e governando le istanze che provengono dal mondo liberale e riformista. Un vuoto simile esiste anche a sinistra”.

A sinistra chi potrebbe colmarlo?

“Renzi e Calenda ci hanno provato e non ci sono riusciti. Forse avrebbero dovuto giocare carte diverse”.

Il taglio dei parlamentari è l’ultima frontiera del populismo?

“In verità coglie un desiderio non lontano da quello della Democrazia Cristiana. Anche De Mita si pose il problema dell’ammodernamento delle istituzioni e del loro funzionamento. La questione relativa al numero dei parlamentari era presente anche allora. Il voto popolare, certamente un po’ di pancia, riflette il mancato raccordo fra la politica e i partiti, fra le istituzioni e i cittadini. Ma non contraddice lo spirito, i programmi, il modo di intendere e di rapportarsi di una volta… Io sono stato parlamentare per due legislature, ho avuto responsabilità di partito: la mediazione coi cittadini era costante. Si utilizzava un termine brutto, “clientela”, ma il partito era il luogo in cui si ragionava. Valeva per tutti, non solo per la Dc. Un comunista, un democristiano, un socialista, si recava alle urne per esercitare un voto di coscienza. Oggi, invece, si preferisce sollecitare la pancia e non l’intelligenza. Col risultato che quel consenso è effimero, dura poco e non porta da nessuna parte”.

Il voto di pancia, però, si sta ritorcendo contro i Cinque Stelle.

“Durante la costruzione di un progetto, il dissenso va trasformato in consenso. Nel Movimento 5 Stelle non è stato possibile. Lì alberga un’idea viscerale – populista ma anche un po’ qualunquista – che porta ad aggregarsi per i motivi più disparati. Poi, qualora un’esperienza di governo non riesca a soddisfare le esigenze iniziali, la delusione aumenta e il dissenso rimane tale. Il voto non strutturato, in questo modo, rimane fluttuante. Destinato ad andare altrove. Finché non troverà qualcuno che, sulla scorta di ragionamenti seri, possa offrire un programma concreto e un’idea di sviluppo. Il Paese ne avrebbe tanto bisogno”.