Et in Arcadia ego, è il titolo di un celebre dipinto del Guercino del 1620, un memento mori di atmosfera pastorale. Il significato esatto del celebre motto è ancora dibattuto tra gli accademici. Per alcuni potrebbe riferirsi all’onnipresenza della morte nel tempo e nello spazio, anche in un luogo ameno come l’Arcadia che, dal Seicento in poi, viene raffigurato dalle simbologie di Virgilio e degli Idilli del poeta siciliano Teocrito: paesaggio idealizzato popolato da pastori-poeti. Ancora oggi, il termine “Arcadia” evoca il comune sentire di alcuni artisti e letterati che in epoche diverse hanno narrato il rimpianto di una vita secondo natura.

Tra questi, uno dei più famosi è Wilhelm von Gloeden, fotografo tedesco che si stabilì a Taormina nella seconda metà dell’Ottocento, dove realizza dei tableaux vivants fotografici en plein air con efebi nudi in varie pose e con travestimenti che mettono in scena un’Arcadia classicheggiante e idilli bucolico-pastorali. La produzione di Von Gloeden ebbe grande successo internazionale sia per il suo esotismo che per le sue componenti omoerotiche e, dopo un lungo periodo di oblio, a partire dagli anni Settanta viene riscoperta e, ancora oggi, affascina artisti contemporanei, in particolare per l’uso del travestimento e della fotografia intesa come pratica teatrale.

Così la produzione recente dell’artista e regista britannico John Maybury, realizzata in collaborazione con il performer Arthur Gillet – in mostra alla Galleria Pantaleone di Palermo – rimanda ai soggetti rappresentati da Von Gloeden: figure senza tempo, sospese e pur legate alla realtà del paesaggio, modellate dai riferimenti pittorici dei dipinti romantici. Le immagini fotografiche in bianco e nero di Maybury prendono vita nei video che aprono nuove visioni di forza, controllo e armonia, dove i movimenti e le forme del corpo scultoreo di Arthur Gillet vengono esaltate dai bordi duri e senza tempo della pietra e dalla magnificenza del teatro antico di Segesta, che affaccia sull’ampio panorama del golfo. Arthur Gillet fonde i suoi movimenti in un connubio perfetto con gli angoli delle architetture classiche che sembrano diventare tutt’uno con il linguaggio fluido e potente del suo corpo. Le sue pose sensuali rimandano sia alle danze dionisiache che alla tensione della statuaria ellenistica, dove ogni muscolo del corpo ci trasmette un forte pathos. Natura e Cultura si fondono. La folta barba satiresca del performer rimanda al dio Pan, divinità della vegetazione incontaminata e degli animali, pastore di un mondo agreste e selvaggio, quasi un’antropomorfizzazione della Natura vista come organismo unico (Pan = tutto). Pan è il Nume dell’Arcadia, simbolo di una sessualità spregiudicata e scevra da moralismi, memoria di epoche arcaiche, durante le quali l’essere umano viveva immerso in questa sorta di “promiscuità panica e cosmica”.

In questo inedito progetto collaborativo, catalizzato nel 2015 da Francesco Pantaleone che ha fatto incontrare il regista e il performer con l’idea di fare un viaggio attraverso la Sicilia antica, le azioni intuitive danno vita a delle coreografie improvvisate, in empatia con il paesaggio e con l’energia e le personalità del gruppo formatosi quasi per caso. Il performer costruisce una struttura di movimento effimera e, attraverso la sua partecipazione corporea, completa lo sguardo del regista. Arthur Gillet mette in scena un happening spontaneo, simile a quello realizzato durante l’inaugurazione della mostra,Maschile/Maschile Il nudo maschile nell’arte dal 1800 ai nostri giorni (2014), al Musée d’Orsay, ma in un contesto diverso. I suoi gesti sinuosi e maliziosamente narcisistici sembrano corrispondere alle parole di Charles Baudelaire e della sua visione mistica del reale, dove la Natura è paragonata ad un tempio e di conseguenza è sacralizzata, diventa il luogo privilegiato della comunicazione con una realtà profonda e autentica. Gillet incarna con il suo corpo e si traveste esteticamente secondo il canone ideale della bellezza greca, liberandosi da qualsivoglia sovrastruttura moralistica, finendo per somigliare a quello che desidera essere.

Nei lavori video girati da Maybury, in collaborazione con Gillet a Segesta, alcuni elementi nel modo di riprendere il corpo che danza, nell’immagine duplicata e sovrapposta, gli effetti psichedelici, si ricollegano ai suoi video sperimentali della fine degli anni ’80, come il videoclip realizzato per la hit di successo internazionale di Neneh Cherry nel 1989, Buffalo Stance o il film del 1998, Read only memory, con il leggendario artista performativo Leigh Bowery. Elementi di estetica postmoderna in cui l’artificio e il citazionismo vengono utilizzati per creare dei collage originali, anti-narrativi ma non privi di ironia, in riferimento alla tecnica surrealista del cut-up usata dallo scrittore William Burroughs.

Questi motivi rappresentano la cifra stilistica tipica del linguaggio visivo di Maybury, formatosi agli inizi degli anni Ottanta a Londra, nell’ambito di quello che i critici chiamavano il New Romantic Cinema, riunendo sotto questa etichetta un gruppo di filmakers indipendenti di cui facevano parte Maybury con Cerith Wyn Evans e altri che lavoravano principalmente in super-8. Inventarono un nuovo stile fatto di eccessi visivi, performances sessuali spesso omoerotiche e critica sociale. Bisogna ricordare che in Inghilterra, l’omosessualità è stata depenalizzata soltanto nel 1967, mentre per la Scozia e l’Irlanda del Nord si è dovuto attendere proprio l’inizio degli anni Ottanta. Ed è stato il cinema, forse più di altre forme d’arte, che ha contribuito ad una completa ‘legittimazione’ dell’omosessualità nella cultura e nell’immaginario collettivo.

Tra questi autori basti citare l’artista e regista Derek Jarman, figura di culto di cui Maybury è stato allievo pupillo, scomparso per l’Aids nel 1994, che con la sua arte e la sua vita si è battuto a sostegno dei diritti degli omosessuali e ha parlato pubblicamente, e con sincerità, della propria malattia. Questo periodo storico coincide con i tre governi di Margaret Thatcher, caratterizzati da forti tensioni sociali e politiche, segnati dalla recessione e dalla disoccupazione; dai tumulti razziali nelle grandi città e dall’esaurimento della scena Punk di Londra, spenta dal suo stesso nichilismo. In questo scenario il gruppo di giovani creativi di cui faceva parte Maybury si ritrova intorno ai nuovi locali notturni, nasce la club culture, la cultura underground londinese, un periodo stimolante in cui emergono diversi personaggi che influenzeranno le arti e la moda degli anni successivi, da Boy George a John Galliano, dagli Spandau Ballet a Leigh Bowery. Un periodo fecondo e, forse ancora sottovalutato, in cui si sono trasgredite tutte le posizioni più tradizionaliste sulla sessualità, il genere, l’identità.