Può un cittadino, al di sotto o al di sopra di ogni sospetto, rimanere, per oltre dodici anni, impiccato all’albero della gogna senza che arrivi una sentenza definitiva, senza che la civiltà del diritto sia in grado di dire una volta per tutte se è colpevole o innocente? L’ultimo caso che l’inquieto palcoscenico siciliano pone alla riflessione di un paese in cerca di giustizia porta il nome di Mario Ciancio, novant’anni, editore del quotidiano La Sicilia, assolto ieri dall’infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. “Il fatto non sussiste”, hanno stabilito i giudici della prima sezione penale del Tribunale di Catania. La procura aveva chiesto la condanna a 12 anni e la confisca dei beni che, in una precedente stazione del calvario, già gli erano stati sequestrati e dissequestrati.

L’assoluzione di Ciancio è un altro miracolo di Giobbe, l’uomo al quale il Dio di Israele – secondo la Bibbia – ha assegnato indicibili sofferenze e una infinta pazienza. Il suo sguardo misericordioso si è posato da tempo sul martirio che l’ingiustizia degli uomini ha inflitto a un gruppo di sventurati: Calogero Mannino, Mario Mori e Antonio Subranni, tutti – manco a dirlo – di una età compresa tra gli ottanta e i novant’anni. E, a questi quattro sventuratissimi vegliardi, ha regalato la possibilità di godersi in vita il sollievo della liberazione; una liberazione dagli incubi, dagli interrogatori, dalle carte bollate, dalle intercettazioni, dai confronti in aula, dalle dichiarazioni dei pentiti, dalle diffidenze della gente e anche dalla paura – nel caso di Mario Ciancio – di vedere il proprio gruppo editoriale sprofondare lentamente in una palude asfissiante di sospetti e di difficoltà economiche.

Invocare giustizia e non ottenerla è di per sé un supplizio straziante. Pensate: Mannino, ex ministro democristiano, messo sotto accusa nel 1994 dal procuratore Gian Carlo Caselli, è stato assolto, con sentenza della Cassazione, dopo avere conosciuto il carcere e dopo essersi difeso da ogni complicità con la mafia davanti a cinque collegi giudicanti: la sua gogna è durata ventidue anni. Mario Mori e Antonio Subranni – i due generali dei carabinieri che, manco a dirlo, avevano arrestato nel 1993 Totò Riina, il sanguinario capo dei corleonesi, il regista delle stragi che massacrarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – sono stati invece intrappolati, dai pubblici ministeri Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, nel teorema farlocco della trattativa tra lo stato e i boss di Cosa Nostra: ci sono voluti dieci anni di dileggi, di pubblici sputtanamenti e umiliazioni prima che la matassa giudiziaria si dipanasse e che i due alti ufficiali riconquistassero l’onore perduto, infangato, sfregiato.

Una giustizia “di cenere e polvere”, per dirla con Giobbe, ulcerato nella mente e nel corpo da “uomini che imbrattano di tenebra il pensiero di Dio”. Ma anche una giustizia che crocifigge prima del giudizio, che privilegia il sospetto rispetto alla prova, che cede ai furori della piazza e all’inganno dei processi mediatici. Per fortuna né Mori né Subranni né Ciancio hanno conosciuto il carcere. Ma sono stati chiusi per anni nelle gabbie, bianche e invisibili, dei processi senza fine, delle procedure attorcigliate, di una emergenza – come quella mafiosa – che non tollera clemenze e che scandaglia oltre alle complicità, alle collusioni e alle convivenze già descritte nei rapporti investigativi, anche ogni singolo rapporto umano, ogni legame familiare, ogni movimento bancario, ogni amicizia, ogni tabulato telefonico: perché non c’è un’accusa da provare ma, quasi sempre, una innocenza da dimostrare. E in questo vortice infernale può pure succedere che, quando tutto sembra chiarito, spunta all’improvviso un ultimo pentito, magari con la rivelazione più fantasiosa, che comunque costringe il presidente della Corte a riaprire le maglie del dibattimento e rinviare l’udienza a data da destinarsi.

Mario Ciancio, proprietario di aranceti nella piana di Catania ed editore di un quotidiano molto influente, comunque non è finito subito negli ingranaggi giudiziari. Per otto anni, a partire dal 2002, le avanguardie della cultura del sospetto gli girano attorno con informative, allusioni, insinuazioni. Gli chiedono conto e ragione delle sue frequentazioni, delle sue sue partecipazioni azionarie, delle sue entrate, delle sue uscite, di ogni voce di bilancio. Persino di un necrologio per un poliziotto ucciso che La Sicilia non ha pubblicato. Poi, nel novembre del 2010, la Distrettuale antimafia lo indaga formalmente per concorso esterno e lo chiude nella gabbia bianca di un pesante avviso di garanzia e di un’indagine aperta a ogni sviluppo, a ogni approfondimento. Ed è così che le dicerie sui suoi rapporti con i boss dei clan catanesi – malacarne del calibro di Nitto Santapaola – approdano in un fascicolo giudiziario dove già campeggiano le dichiarazioni, ovviamente de relato, rese dal pentito Angelo Siino, e da Massimo Ciancimino, il pataccaro figlio di don Vito, che in quegli anni è molto coccolato dai magistrati di Palermo, che già preparano il grande show della Trattativa, e viene baciato in pubblico persino da Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato in via D’Amelio. Nel 2010 tuttavia siamo ancora nella vaghezza. Al punto che il procuratore e il pubblico ministero del tribunale catanese chiedono l’archiviazione. Ma il Gip si oppone e Ciancio diventa la pietra di scandalo nella quale inciampano due giudici delle udienze preliminari: una, Gaetana Bernabò Di Stefano lo proscioglie mentre due anni dopo, in seguito al ricorso della procura, Loredana Pizzino non ci pensa su due volte e lo rinvia a giudizio.

Le sbarre della gabbia bianca si infittiscono il 24 settembre del 2018 quando, a sorpresa, la Sezione Misure di prevenzione dispone il sequestro di tutte le proprietà del gruppo: giornali, televisioni, stazioni radio, terreni e conti correnti. Il vecchio editore, con quote nella Gazzetta del Sud e nella Gazzetta del Mezzogiorno, sembra destinato a soccombere. Ma si sa: c’è sempre un giudice a Berlino. Con una sentenza che è già un’inversione di rotta, la Corte di appello nel marzo del 2020 annulla il sequestro: scrive che non è stata provata “alcuna sproporzione tra i beni legittimi” accumulati dall’editore e stabilisce “la mancanza di pericolosità sociale”. La procura presenta puntualmente il suo ricorso ma la partita viene chiusa definitivamente dalla quinta sezione della Cassazione, presieduta da Maria Vessichelli, che in trentacinque pagine smonta, una dopo l’altra, le accuse rovesciate su Ciancio da pentiti, pubblici ministeri e professionisti dell’antimafia; lo ripulisce da capo a fondo e gli restituisce tutti i beni che il tribunale aveva intanto immobilizzato.

Ma la legge dell’antimafia non perdona. Chiuso il processo intentato dalle Misure di prevenzione, resta in piedi quello per concorso esterno. Che va avanti lentamente, stancamente, per quasi tre anni, con udienze rinviate anche di cinque mesi, tanto che fretta c’è. Ieri, finalmente la sentenza di assoluzione pronunciata dal presidente del Tribunale, Roberto Passalacqua. Se la procura non presenta appello, la storia dolorosa di Mario Ciancio si chiude qui. Altrimenti bisognerà invocare ancora una volta la pazienza e l’aiuto di Giobbe.